Questo intervento di Massimo Molteni segue quello pubblicato l’11 gennaio 2022 (CLICCA QUI)

Le reti di patologia che si dipanano per diversa complessità di azione e su territori sufficientemente omogenei, ad ampiezza geografica crescente in base alla sofisticata necessità tecnologica necessaria per rispondere al bisogno di cura, sono il presente e soprattutto il futuro della medicina ospedaliera moderna: i posti-letto prima che per Ospedali, vanno definiti e suddivisi per le “reti di patologia”, con distinzioni per complessità tecnico-gestionali crescenti: i moderni ospedali devono diventare efficienti  strutture in grado  di coprire i bisogni logistici e tecnologici di processi di cura a complessità diversificata, dei necessari investimenti tecnologici e del loro costante aggiornamento, che includano al proprio interno, differenti percorsi di rete e un efficiente sistema di risposta alla urgenza/emergenza , sempre in rete con le strutture deputate a raccogliere e trasportare le persone con necessità di cure in acuto e in emergenza.

Non più “cittadelle della cura”, che racchiudono al loro interno, negozi, souvenir, alta tecnologia e tutte le più alte professionalità, conquistate con contratti vantaggiosi e vincolate alla fedeltà aziendale come se stessero combattendo una guerra contro le altre cittadelle, viste come “competitor” in una naturale “guerra commerciale”.

Costruire la programmazione sulle “reti di patologia” consente di ragionare in termini primariamente epidemiologici e quindi di risposta al bisogno: è probabile che in questo modo si faccia evolvere –nell’immaginario comune – la visione dell’ospedale da luogo di cura  “salvifico” (come giustamente era in un contesto meno tecnologizzato e a meno rapida evoluzione dell’attuale) a luogo specializzato dove i pazienti e i professionisti della cura e della assistenza, trovano una logistica adeguata, sia in termini di tecnologia che alberghiera, dove esercitare le funzioni di cura e assistenza in relazione alla complessità della patologia presa in carico dalle “reti di patologia”. E’ probabile che in questo modo si faciliti il superamento di quella equazione economicista che accompagna il mondo ospedaliero da qualche decennio e che vede nel “posto-letto” il fondamento del valore economico della attività: il posto-letto deve essere occupato il più possibile con un elevato indice di  turn-over, perché ogni nuovo “cliente” che “occupa” il letto è portatore di valore economico per la azienda-ospedale in  relazione ai DRG (ossia al valore economico riconosciuto dal sistema per il singolo ricovero) che riesce a far generare.

Credo si possa convenire che il “letto” debba servire per fornire assistenza a chi ne ha bisogno, nella modalità più appropriata, articolando la complessità assistenziale in base al quadro clinico della patologia, ma anche alle condizioni di bisogno di salute del malato: non avendo costruito “reti di patologia con punti di erogazione di attività  a complessità diversificate e tra loro integrate” assistiamo al paradosso che le  persone che necessitano di assistenza dopo la fase acuta o dopo l’intervento ad elevata tecnologia, non abbiano un luogo dove continuare per un certo periodo la necessaria assistenza se non la propria abitazione, con tutte le conseguenti complicazioni specie per le persone fragili o sole o che comunque abitano in realtà dove l’assistenza al proprio domicilio è oggettivamente difficile: cioè “gli scartati” direbbe papa Francesco. E magari poi finiamo per inventarci gli “ospedali di comunità”, la cui funzione appare ancora oscura e certo di difficile comprensione per i comuni cittadini: chi sarà ricoverato? E come interconnettere i team di cura di questi ospedali co quelli dei grandi nosocomi da cui arriveranno i pazienti?

Prima che un problema di risorse (peraltro non banale) è una questione di progettualità di sistema.

Ottimizzare i costi gestionali dei diversi tipi di posti-letto è un dovere etico necessario: programmare la risposta al bisogno di salute secondo logiche epidemiologiche, cliniche e di competenza tecnologica e assistenziale, non è un dovere etico inferiore al primo.

Se il cardine della assistenza ospedaliera diventano le “reti di patologia”, forse può venir meglio definito anche il ruolo della assistenza territoriale che è il fulcro centrale del sistema “salute” di una comunità.

Il primo pilastro della assistenza territoriale è il medico di medicina generale o pediatra di famiglia: queste specifiche e particolari figure non hanno solo un compito di cura della patologia in acuto, ma svolgono quell’insostituibile ruolo di ascolto, discernimento clinico e accompagnamento di una complessa domanda di salute di cui il cittadino è portatore, spesso anche inconsapevolmente.

La medicina territoriale, o ambito delle cure primarie, è la prima frontiera nella gestione di una domanda di cura e “nodo territoriale” della rete di patologia prima descritta: se questo pilastro è messo in condizione di funzionare, l’intera architettura del sistema sanitario avrà una migliore resilienza.

Il lavoro e il compito del medico di medicina generale è molto complesso: oltre ai saperi specialistici deve assommare una capacità di ascolto, discernimento e accompagnamento della domanda di salute che proviene dal cittadino.

Difficile immaginare che un medico possa fare tutto da solo, come poteva avvenire in passato: la moderna medicina consente l’utilizzo anche di una strumentalità diagnostica da agire direttamente in loco che richiede ulteriore specificità. Un modello aggregativo tra più medici (tendenza che va crescendo, meritoriamente), nelle forme giuridiche da definire con maggiore attenzione rispetto a quanto fatto finora, perché è materia sicuramente complicata, che consenta anche alcune sinergie di cura e di indagine, mantenendo ciascuno il rapporto fiduciario di cura con il proprio assistito, può essere una evoluzione da incoraggiare con maggiore decisione.  A causa della particolare conformazione geografica,  delle vistose differenze di densità di popolazione tra le diverse zone di Italia e dei diversi contesti sociali dove i diversi medici di medicina generale si trovano ad operare, appare consigliabile evitare formule standard, uguali per tutti i contesti: in questo deve risiedere  l’originalità di una organizzazione sanitaria costruita e incardinata sui territori e non decisa e governata dall’Alto, così da sollecitare e favorire soluzioni che possono nascere dal basso, in relazione ai diversi contesti, anche responsabilizzando la comunità civile di riferimento, in maniera circolare si potrebbe dire.

Meglio qualificato  il delicato ruolo del medico di medicina generale, si potrà opportunamente valorizzare la recente introduzione dell’infermiere di famiglia che potrà avere un ruolo molto importante nell’attuale contesto sociale, nella misura in cui la sua autonomia professionale sarà inserita in un programma di cura e assistenza condiviso con i medici del medesimo contesto e finalizzato alla assistenza e anche alla educazione alla salute: aumentare la prossimità assistenziale alle persone più fragili, rafforzando il network curante del sistema territoriale.

E per cerchi concentrici, anche il ruolo del terapista, può trovare una progressiva collocazione territoriale.

Partendo dalle “funzioni di cura”, il disegno del “distretto territoriale” diventa comprensibile e può diventare un valore aggiunto: per quel che se ne conosce, ad oggi il Distretto appare una realtà piuttosto indefinita, con il concreto rischio che si trasformi nella ennesima sovrastruttura, dotata di spazi e strumenti, idonea a far crescere il PIL, non necessariamente la salute dei cittadini.

In passato si è scelto di attribuire al medico di medicina generale anche il ruolo di “gate Keeper” (il “mito” del sistema inglese), in italiano “custode del cancello”: questa funzione è tutt’ora presente e ha assunto un peso sia burocratico che di controllo sempre maggiore.

A volte la terminologia è più evocativa di molti costrutti semantici: quale è il “cancello” da custodire e per evitare cosa? Risposta facile: il cancello regola l’accesso alle risorse costose (farmaci, esami diagnostici, etc.) e il custode, come ogni guardiano, deve evitare accessi impropri.

Ma come? Il medico di fiducia, custode inflessibile del “giardino delle meraviglie” che fa capolino suadente e ben pubblicizzato giusto al di là del cancello?

E poiché il “custode” non sempre si mostrava “guardiano fidato” secondo gli obiettivi economici del Sistema, sono aumentate le procedure e i controlli si sono fatti sempre più stringenti per rendere in ogni modo difficile l’accesso alle risorse preziose e costose.

Quando la politica, persa la bussola del “bene comune”, non sa decidere, perché chi governa non sa definire i problemi e quindi non può comunicare correttamente i termini della questione, i disastri economici e sociali sono la diretta conseguenza

Al di là di ogni giudizio tecnico e di logica sanitaria, la meta-comunicazione implicita che è stata veicolata alla popolazione è stata disastrosa: oberato di burocrazia il sistema, minata la fiducia alla base del rapporto tra cittadino e medico e traslativamente tra cittadino e sistema sanitario (è sempre l’ambito di prossimità che viene percepito come espressione del SSN), non si è fatto altro che mitizzare nella percezione popolare il ruolo della tecnologia, dei farmaci, degli ospedali, specie se dotati di grande tecnologia, mettendo le premesse per il collasso del sistema che è puntualmente avvenuto. E così sono esponenzialmente aumentate le richieste di tecnologia diagnostica e di presidi farmacologici e  le aspettative nelle super-specialità salvifiche, riducendo progressivamente il ruolo fiduciario del rapporto del medico con il suo paziente: e, per dirla tutta, qualche medico ci ha messo pure del suo…

Così, in maniera assolutamente consequenziale,  i grandi colossi dell’e-commerce e dell’IT  già stanno sperimentando algoritmi di calcolo sofisticati che, grazie alla lettura dei tanti dati funzionali che mettiamo loro a disposizione anche inconsapevolmente  e al  continuo vertiginoso sviluppo di tools tecnologici sempre più accessibili, ci porteranno a fare a meno della intermediazione del medico stesso: cosa c’è di più eccitante di potersi fare un checkup in tempo reale, quando si vuole, e con tanto di risposta immediata sul nostro smartphone e magari una consegna a domicilio di farmaci, presidi e prodotti nutraceutici, personalizzati  proprio per noi? Un Avatar dalla voce suadente dall’altro capo del mondo capace di modulare le sue risposte sulle tracce delle nostre attese e speranze, lasciate inconsapevolmente in maniera indelebile e riconoscibile nella “rete”…

Forse ha fatto comodo una politica debole, fragile e inconcludente: e anche la continua e superficiale polemica  su sistema sanitario pubblico e privato, nasconde (involontariamente?) il cuore del problema, ossia la assoluta mercificazione del concetto di cura, tipico di un sistema assicurativo, in cui di fatto si è trasformato anche il nostro sistema sanitario nazionale: del resto, reificata la malattia, trasformata di fatto la persona in un fattore di produzione, in cosa altro poteva evolvere il concetto di cura se non in una somma di prestazioni dotate di valore economico?

In realtà il bisogno di salute di cui ciascuno di noi è portatore, difficilmente sarà soddisfatto dalla evoluzione ipertecnologica mediata dalla intelligenza artificiale: noi umani siamo una specie biologica ancora un po’ “imperfetta” che, specie nella debolezza e nel bisogno, ha necessità della relazione con l’altro, con un “altro” della stessa specie, magari non sempre accogliente e simpatico, ma dotato di quelle caratteristiche fisiognomiche che abbiamo imparato a riconoscere e memorizzare fin dai primi vagiti: un volto, degli occhi che ci guardano e ci ascoltano, magari delle mani che ci toccano o ci accarezzano o da stringere, per poterci affidare e fidare quando ci sentiamo male.

Siam fatti ancora così (nell’attesa dei cyborg beninteso…)

Meglio, molto meglio se quegli occhi e quelle mani siano anche molto competenti e dotate della giusta tecnologia d’aiuto e di luoghi idonei dove agire, quando necessario: fondamentale però che ci siano e che siano ben salde!

Con la tecnologia applicata alla medicina in maniera sempre più estesa e evoluta ci saranno guarigioni insperate (alcune), aumenterà il numero di coloro che sopravvivrà alla malattia (non sempre in buona salute), con gli algoritmi di calcolo avremo qualche errore tecnico in meno (senza alcun dubbio), ma peggiorerà la nostra percezione di salute e di benessere e forse aumenterà anche la nostra angosciata solitudine.

Ecco perché è cruciale definire cosa si intende per “salute”, per poter organizzare, almeno tentativamente, un servizio sanitario a misura di persona e che risponda al mandato costituzionale.

Ovvio, se ci sono partiti che governano cercando di perseguire il Bene Comune.

Massimo Molteni

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