La guerra, questa parola maledetta, è il più grande fallimento dell’umanità. Di più: è il suicidio della civiltà, è il trionfo della barbarie sulla ragione. La guerra – ha scritto Kant – è il più grande flagello dell’Umanità. C’è qualcuno, tra di noi, che dissente su queste definizioni? Credo proprio di no. Eppure, a volte, la guerra è l’unica strada per preservare la libertà. Da sempre, la storia si muove tra due tensioni opposte: la volontà di dominio e il bisogno di giustizia. Quando il sopruso diventa legge e il potere si fa arbitrio, la resistenza non è solo legittima, ma necessaria. È qui che si colloca il concetto di “guerra giusta”, un tema antico che attraversa la Bibbia, il pensiero greco-romano e la dottrina politica occidentale fino ai nostri giorni. Nell’Antico Testamento, la guerra non è sempre condannata. Anzi, Israele combatte per difendere il diritto alla propria terra, per proteggersi dall’oppressione di re ingiusti e di popoli dominatori. Il messaggio è chiaro: non è la guerra in sé a essere condannabile, ma la guerra di aggressione, quella che nasce dall’avidità e dalla sete di potere. I grandi storici greci e romani, da Erodoto a Tucidide, da Livio a Tacito, ci hanno lasciato cronache di conflitti che spesso hanno segnato il destino dei popoli. Tucidide, nel suo racconto della guerra del Peloponneso, ci mette in guardia dalla brutalità della guerra, ma riconosce anche che non sempre è evitabile. Roma stessa fondò la sua grandezza su un concetto di “guerra giusta”, che non significava solo conquista, ma anche la difesa delle proprie istituzioni e della propria libertà. Nel pensiero cristiano medievale, Agostino e Tommaso d’Aquino codificarono l’idea di guerra giusta: può essere intrapresa solo come ultima risorsa, per difendersi da un’ingiustizia manifesta e sempre nel rispetto di criteri etici. Questo principio è rimasto centrale nella cultura giuridica europea e ha ispirato la costruzione del diritto internazionale moderno.
Eppure, nei secoli più recenti, il concetto di guerra giusta è stato spesso dimenticato o distorto. Nel Novecento, le guerre mondiali hanno mostrato il volto più terribile della violenza organizzata, ma al tempo stesso hanno dimostrato che la resistenza al male è un dovere morale. Senza la guerra contro Hitler, l’Europa sarebbe precipitata in un’epoca di oppressione e sterminio. Senza la lotta dei popoli contro le dittature comuniste, il continente non avrebbe ritrovato la sua libertà. Oggi, il conflitto tra Russia e Ucraina ripropone la stessa questione: può un popolo arrendersi di fronte all’invasione e alla prepotenza di un regime autoritario? Il pacifismo che invita alla resa non è un atto di saggezza, ma di complicità con l’aggressore. La pace vera non è l’assenza di guerra a qualunque costo, ma è giustizia, libertà e rispetto reciproco tra i popoli.
La nostra civiltà giuridica e umanistica, nata in Europa e radicata nei valori della democrazia e dei diritti umani, si è sempre fondata su questo principio: la pace non è semplice assenza di conflitto, ma un equilibrio basato sulla libertà e sul diritto. La pace è uno stato d’animo, una predisposizione al dialogo e alla tolleranza, ma non può mai significare capitolazione davanti alla violenza. La vera pace si costruisce con la giustizia, non con la paura. Se oggi vogliamo difendere l’Europa libera e democratica, dobbiamo riscoprire il senso autentico di questi valori. La storia ci insegna che la pace è fragile e che spesso va difesa con il coraggio, anche quando questo significa resistere con la forza. Chi predica un pacifismo incondizionato dimentica che la resa non porta alla pace, ma solo a una guerra ancora più lunga e ingiusta. Perché la pace, quella vera, è una responsabilità: va costruita con la tolleranza, con il dialogo, con il diritto. Ma, quando necessario, anche con la fermezza di chi non accetta di vivere sotto il giogo o con le catene dell’oppressione.
Michele Rutigliano