L’Europa deve ripartire da dove De Gasperi l’ ha lasciata. Non si fa la storia piangendo sul latte versato, eppure se la CED non fosse stata cassata dal Parlamento francese, l’unità dell’Europa avrebbe percorso un cammino decisamente di ordine politico, invece di dover aggirare l’ostacolo passando da un tortuoso by-pass mercantile.
Sarebbero stati differenti gli equilibri nell’ambito dell’ Alleanza Atlantica e l’Europa sarebbe stata protagonista sulla scena internazionale, anziché essere esposta agli schiaffoni ed alle contumelie di Trump.

Ora abbiamo una nuova chance, una sorta di prova d’appello e non possiamo nasconderci dietro un dito. Né possiamo fallire ancora una volta. O togliamo le tende, rinunciamo al “sogno europeo” e decretiamo il “liberi tutti” – con le drammatiche conseguenze che si possono facilmente immaginare – oppure, siano pure forche caudine, dobbiamo, per forza di cose, adottare coraggiose – ed onerose – politiche di difesa comune. Non si tratta di essere guerrafondai, né di sottovalutare un impegno per la pace che dev’essere di tutti, pur nei modi articolati che derivano dalla storia, dalla cultura, dalla sensibilità di ognuno.

Va osservato, a proposito della CED – e la stessa considerazione vale oggi – che non si trattava, in alcun modo, di gratuito militarismo, bensì di un progetto “politico” che si articolava secondo un braccio militare. Il secondo funzionale al primo. Non vi è alcun dubbio, in sostanza, che l’ Europa debba avere un suo apparato difensivo. Chi lo negasse dovrebbe proporre il disarmo unilaterale.

Non si vede perché sostenere il costoso onere di una parvenza di difesa armata, ove questa fosse una sorta di parata, poco o per nulla orientata all’interesse del Paese. Una considerazione analoga varrebbe ove si considerasse come un esercito convenzionale sia necessariamente capace di prestazioni operative non paragonabili a ciò che può mettere in campo una potenza nucleare.

Insomma, la storia di Davide e Golia, neppure da raccontare perché  è nell’ordine naturale delle cose che la vinca Golia. Se così fosse, tanto varrebbe consegnare alla potenza nucleare le chiavi di casa e buona notte al secchio. Né si deve ritenere che la difesa comune dell’ Europa debba contraddire la via diplomatica e la ricerca di strategie di disarmo bilanciato. Le quali hanno ottenuto risultati parziali eppure significativi, in modo particolare sul
versante nucleare, negli anni della guerra fredda, in virtù della reciproca deterrenza tra Stati Uniti ed Unione Sovietica.

Ove si convenga, dunque, che l’Europa deve essere posta in grado di difendersi per non essere lo zimbello delle mattane altrui, è necessario concludere che debba farlo, in buona misura, da sé. Non per rompere i patti atlantici, bensì, al contrario, perché vi siano, tra le due sponde dell’Oceano, rapporti bilanciati che permettano di accompagnare la NATO, in modo più equilibrato e politicamente più accorto, sullo scacchiere, inevitabilmente multipolare, delle relazioni internazionali. In quanto alle risorse necessarie, inevitabilmente gli europei devono mettere mano alla borsa. Ma la questione non è meramente finanziaria e quantitativa.

Si tratta, in primo luogo, per non perdere altro tempo, di coordinare quel che già c’è nei Paesi – non necessariamente tutti i 27 – disponibili, così da spremere, intanto, quanta più efficacia possibile dalla definizione comune delle catene di comando, delle strategie, della integrazione delle piattaforme operative e, soprattutto, degli uomini in armi.
Occorrerebbe creare a Bruxelles una struttura politico-militare che si occupi, quanto prima, della regia di tale processo.

In quanto ai miliardi messi in campo da Ursula von der Leyen, rischierebbero di risultare spesi male, se non altro in misura meno produttiva, se distribuiti secondo le attuali filiere nazionali, piuttosto che concentrati su un impianto, almeno iniziale, di difesa effettivamente comune e condivisa. Peraltro, poiché si dovrà, in ogni caso, pur mettere mano a maggiori spese, sarebbe improprio, ricorrendo alla fiscalità generale, scaricarne l’ onere prevalentemente sui ceti popolari a difesa, peraltro doverosa, anche di quelli abbienti.

Andrebbe colta l’occasione per dare un primo scossone alle diseguaglianze inaccettabili che osserviamo tutti i giorni.
Anzitutto – attraverso un ordinamento fiscale comune ai paesi dell’ Unione – si dovrebbero finalmente tassare sul serio le grandi multinazionali della comunicazione e dell’alta tecnologia. E, soprattutto, perché non pensare, a fronte di una condizione che è di reale emergenza, per quanto non risolvibile in un breve momento, ad una fiscalità speciale comune a tutti i Paesi dell’ Unione, che vada a prendere i soldi dove ci sono? Concepita, cioè, come una sorta di mini-patrimoniale di scopo ?

Domenico Galbiati

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