Si torna a parlare di “Patto di stabilità”. Il prossimo mese la Commissione Europea comincerà a discutere l’accordo tra i Paesi membri, già oggetto di tanti contrasti e divergenze, ora sospeso sulla base di una clausola generale di salvaguardia imposta dalla crisi pandemica.

Anche se più volte modificato (l’ultimo regolamento nel 2005) il Patto ha lo scopo di assicurare stabilità del quadro economico generale e prevede che i Paesi aderenti rispettino due limiti ben precisi: un deficit di bilancio (differenza tra entrate ed uscite compresi gli interessi) non superiore al tre per cento del PIL e un debito pubblico contenuto entro il sessanta per cento.

Prima della crisi pandemica, anche se l’economia non cresceva, il nostro Paese sostanzialmente si sforzava di rispettare il limite del deficit ma quanto al debito pubblico eravamo non al sessanta ma al centoventi per cento del PIL e l’impegno assunto era quello di un rientro graduale in almeno vent’anni. Da qui le polemiche e le accuse di Europa matrigna quando in fondo la Commissione chiedeva solo di rispettare un accordo che avevamo sottoscritto e nel nostro interesse.

L’effetto della crisi sanitaria ha imposto a tutti i Paesi un fortissimo aumento del debito pubblico, travolgendo il parametro del Patto di stabilità che peraltro in pochi rispettavano. Anche noi abbiamo fatto la nostra parte con le ripetute variazioni di bilancio, siamo già al centocinquanta per cento del PIL e siamo in procinto di indebitarci ulteriormente con il Recovery Fund, che ci assicura dall’Europa una pioggia di danaro per stimolare la ripresa con investimenti e riforme ma che in larga parte sarà comunque un debito. Da qui ecco il problema del ritorno al Patto di stabilità, ponendo fine alla temporanea sospensione e sollecitato in particolare dai Paesi del nord Europa.

Il presidente Draghi, che già in passato riteneva non adeguate le severe regole in vigore, è recentemente intervenuto per introdurre la discussione che si aprirà a Bruxelles sostenendo una linea chiarissima in due punti. Primo: le economie fortemente impegnate ad uscire dalla crisi devono poter contare su margini di bilancio più ampi essendo prematuro abbandonare le politiche di sostegno in corso. La clausola di salvaguardia che sospende temporaneamente il Patto deve essere pertanto prorogata per almeno due anni.

Secondo: in ogni caso i parametri del deficit del tre per cento e del debito al sessanta per cento del PIL devono essere quanto meno rivisti.

Il confronto tra i Paesi membri sarà quindi molto duro e in larga parte l’esito dipenderà anche dai risultati delle elezioni politiche tedesche del prossimo autunno.

Sin da ora è però certo che molto dipenderà dalla ripresa delle economie attesa dal secondo semestre di quest’anno e per i prossimi 2-3 anni. Il tasso di crescita previsto dalle stime già note a Bruxelles è decisamente positivo e si assesta per oltre il quattro per cento del PIL per la media europea e – buona notizia- anche quello italiano sfiora questa percentuale. Non si può dimenticare però che negli anni che hanno preceduto “l’horribilis” 2020, con la sola eccezione del 2017, l’Italia anziché crescere arretrava mediamente dello 0,8% e la stessa Europa, pure in crescita, non superava l’uno per cento. Né si può dimenticare che sempre nel 2020 tutti i grandi Paesi dell’Unione hanno registrato violente contrazioni delle loro economie, comprese Germania e Francia, per non dire di Italia e Spagna con una caduta a doppia cifra.

Ecco perché Draghi, e non solo, ritenevano già non adeguati i parametri del patto di stabilità ancor prima della crisi pandemica. Ora molto dipenderà dall’utilizzo del Recovery Fund se avremo la capacità di meritarci le erogazioni già previste. E’ largamente noto che le condizioni sono strette: investimenti e riforme. Come giudicare allora la stravagante uscita di Salvini di ieri che avverte Draghi che “Non sarà questa maggioranza a fare le riforme di fisco e giustizia”?

“No reforms, no funds” direbbe l’omino della pubblicità.

Guido Puccio

 

 

 

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