E’ comprensibile, e non si può essere che solidali con loro, la fremente attesa dei Siciliani, per la decisione, che dovrebbe essere ormai imminente, relativa alla costruzione del ponte sullo Stretto di Messina (CLICCA QUI).

E come potrebbe essere altrimenti? Da questa decisione dipende in larga misura quale sarà il futuro economico ed identitario dell’isola, il suo non solo concreto e simbolico ancoraggio culturale all’Italia e la partecipazione all’Europa che vedrà la luce quando l’attuale crisi pandemica, economica e delle alleanze militari avrà fatto tutto il proprio corso. Si tratta di una decisione di portata storica per la Sicilia, di cui troppi falsi amici sottolineano senza sosta più il carattere mediterraneo che quello italiano, astrologando su ridicole affinità e comunanza di interessi con i paesi musulmani delle sponde africana ed asiatica.

Del resto, anche dal punto di vista di chi vive sul Continente, la costruzione del Ponte sullo Stretto appare chiaramente come il progetto – l’unico tra quelli che l’Italia che guarda al futuro possa oggi concepire –  in grado di conferire al Piano Nazionale di Ricostruzione e Resilienza il significato di un balzo coraggioso verso l’avvenire; un gesto politico e simbolico quale l’Italia non ha più compiuto nella sua storia recente, dopo il trasferimento della Capitale a Roma. Un messaggio quale nessun altro utilizzo del prestito garantito da Bruxelles potrebbe lanciare.

Il ponte va visto come un segnale inviato a tutta l’Europa, e incoraggiato dalle sue istituzioni, a proposito dell’ambizione dell’Italia ad un ruolo di primo piano nelle audaci trasformazioni che saranno necessarie nei prossimi anni, e non come un’infrastruttura di trasporto la cui utilità possa essere misurata in termini di costi e benefici economici, insomma come un investimento da valutare per la sua “efficienza”. E questo anche se i conti stanno lì ad obiettivamente provare la sua convenienza economica. Di fronte alle sfide che si profilano, come in una guerra – e nessuno, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, ha mai ripetuto più di quest’ultimo anno che ci troviamo in una guerra – in questo caso l’efficienza non importa, quello che conta è l’efficacia, l’ottenimento pieno del risultato. E il risultato da perseguire è la riaffermazione che la Sicilia e l’Italia peninsulare sono un’unica e identica cosa, parte di un’unica “democrazia con caratteristiche italiane”.

Vista nel quadro della storia d’Italia, cioè nella prospettiva del lungo periodo, la saldatura fisica tra l’isola e la penisola potrebbe costituire per la Sicilia una sorta di compensazione del fatto di essere stata per ben due volte esclusa, ad iniziativa di potenze militarmente ostili ad ogni progresso, da alcuni dei più importanti successi ottenuti dall’Italia moderna.

Due occasioni storiche negate

Una prima volta, questa esclusione della Sicilia dal processo di costruzione dell’Italia moderna accadde ai primi dell’Ottocento, quando la flotta inglese, schierata a bloccare lo Stretto, impedì che il regno murattiano estendesse anche alla Sicilia il messaggio della rivoluzione francese, e la propria azione modernizzatrice ed illuminata di cui il Mezzogiorno continentale beneficiò in maniera tanto irreversibile che gli stessi Borboni restaurati al potere dopo il 1815 ne dovettero mantenere le riforme. La società dell’isola venne invece mantenuta sotto il “poliziesco regime borbonico, che lo stesso William Gladstone, ancora trentasei anni dopo la fine dell’avventura napoleonica, descriverà come un governo che “rappresenta l’incessante, deliberata violazione di ogni diritto; l’assoluta persecuzione delle virtù congiunta all’intelligenza, fatta guisa da colpire intere classi di cittadini, la perfetta prostituzione della magistratura […], la sovversione di ogni idea morale e sociale eretta a sistema”, […] la negazione di Dio.”. La società siciliana ne subirà danni in termini di iniquità e di staticità che saranno visibili ancora all’indomani della spedizione dei Mille, e che verranno riassunti nella celebre formula secondo la quale anche l’unità d’Italia fu un cambiamento che mascherò l’immutabilità delle relazioni sociali nell’isola. Se ne ebbe prova ancora durante il Fascismo, quando i “nobili” siciliani ottennero che Vittorio Emanuele III facesse pressione su Mussolini, per la rimozione dal suo incarico antimafia del celebre “prefetto di ferro” Cesare Mori.

 Una seconda volta, questa forzata estraneazione della Sicilia rispetto ai progressi realizzati nella parte peninsulare del nostro paese, si verificò negli anni quaranta dello scorso secolo. Dopo la sconfitta delle forze tedesche, nell’isola occupata dalle truppe alleate, gli Americani nominarono infatti sindaci di un grandissimo numero di comuni i boss mafiosi che apparivano in una lista compilata da Salvatore Lucania, detto Lucky Luciano, il famoso gangster siculo-americano inventore dell’Anonima Assassini, che ammazzava praticamente chiunque contro pagamento di poche migliaia di dollari.

Luciano, infatti, condannato negli Stati Uniti a 60 anni di carcere per sfruttamento della prostituzione, era stato liberato dopo aver collaborato con l’US Navy sul cosiddetto “fronte del porto”. Successivamente, anche se espulso dall’America, aveva comunque fornito alle forze sbarcate nell’isola una lista di 804 nomi di delinquenti, da cui emerse la vera forza, quella formata di banditi armati, del separatismo siciliano. A cui l’Italia  dell’antifascismo e della scelta Repubblicana dovette piegarsi accettando, ancora prima che la Costituzione di tutti gli Italiani venisse scritta, che la Sicilia sarebbe stata una regione a Statuto Speciale, al cui governo regionale sarebbe spettata anche la competenza sulla Riforma Agraria. In pratica, la garanzia che nell’isola – come poi di fatto accadde – il potere dei latifondisti non sarebbe stato toccato, e che ai Siciliani sarebbe stato negato il beneficio di cui hanno goduto tutti gli altri italiani della promozione – profondamente voluta dalla Democrazia Cristiana – della piccola proprietà coltivatrice nelle regioni meridionali del paese. E venne quindi negato anche il beneficio della pacificazione civile che quella riforma portò in dono, dopo anni di turbolente occupazioni di terre semi-incolte e di arroganti e volgari reazioni baronali.

L’indispensabile unità del Mezzogiorno

Anche alla luce degli sconvolgimenti, forse profondi, che potrebbero accompagnare i prossimi sviluppi della crisi pandemica, negare, nel XXI secolo, la costruzione del ponte sopra lo Stretto sarebbe un vulnus storico di gravità comparabile a quelli già inflitti alla Sicilia in ciascuno dei due secoli precedenti. E sarebbe difficile non pensare che questo diniego sia in qualche modo collegato ad una congiuntura europea in cui qualche paese del Nord guarda con occhi differente alle diverse regioni d’Italia; una congiuntura nella quale questo interesse è in qualche modo ricambiato da tentazioni alla differenziazione amministrativa tra gruppi di regioni, indipendentemente dal fatto che le loro amministrazioni siano tinte di giallo o di rosso. A pensar male – come è stato detto – si potrebbe credere di veder giusto nel pensare che paesi che non tengono in grande considerazione l’Italia vedano con una certa soddisfazione una Sicilia sempre più “mediterranea” e sempre meno italiana.

Ma è soprattutto all’interno della nostra società che un forte gesto di riaffermazione dell’unità tra la penisola e la sua isola maggiore avrebbe peso. Senza una condivisione dell’impegno comune con la Sicilia, infatti, il Sud pesa assai poco, e l’azione meridionalista, già indebolita dalla riforma che cinquant’anni fa ha istituito le Regioni, perderebbe anche il nome di azione. Senza la realizzazione del Ponte, l’estensione dei binari per l’alta velocità sino in Calabria e in Puglia sarebbe probabilmente solo l’ennesimo investimento pubblico poco o punto utilizzato. Finirebbe per essere un’altra “cattedrale nel deserto”, un (costoso e assai poco produttivo) “contentino” ad una parte del Paese la cui irrilevanza il “realista” Draghi ha finito per accettare al momento della composizione del suo attuale governo.

Sarebbe solo polvere gettata negli occhi di un’opinione pubblica meridionale da chi sembra considerarla ormai abituata ad un trattamento da cittadini di serie B. Ma che potrebbe forse ritrovare vigore se un Capo del Governo chiamato – come si spera che Draghi consideri se stesso – a porre fine agli squallidi giochetti delle conventicole di potere in auge nell’era del Conte bifronte, e si dimostrasse sensibile al tema del Mezzogiorno nel suo insieme.

Perché è questo – l’impegno unitario del Mezzogiorno nel quadro politico nazionale – l’unico sentiero di riscossa prospettivo per il Sud, per tutto il Sud, Sicilia compresa. Naturalmente, i piccoli ma numerosi interessi clientelari ed altro legati alle Regino creeranno un fronte di opposizione. Ma a questo è probabilmente possibile contrapporre gli ambienti culturali, scientifici e universitari da raccogliere in uno sforzo di accorpamento delle risorse umane più colte e creative (CLICCA QUI ) per una mobilitazione collettiva, attraverso iniziative politiche e di riforme della distribuzione territoriale dei servizi universitari, realizzabile peraltro con investimenti di capitale limitati ai settori delle telecomunicazioni e delle attività di ricerca scientifica.

Due crisi, due occasioni

Indispensabile per l’élite meridionale del XXI secolo è discutere ed analizzare al proprio interno l’approccio, gli obiettivi, gli ostacoli, i condizionamenti e le tattiche dell’azione del Meridione nel suo insieme. Tanto più necessari, e potenzialmente più utili, in un momento come questo, caratterizzato al tempo stesso da un penoso spettacolo offerto dalle istituzioni sulle quali si è maggiormente scommesso negli ultimi decenni, e da una crescente, inquietante prospettiva relativamente all’ordine mondiale.

Il primo, lo spettacolo assai sconcertante, e contrario al pensiero ufficialmente dominante è quello che viene offerto tanto dalla Commissione europea della insignificante von der Leyen, quanto dalla disastrata Lombardia dell’inverosimile Attilio Fontana. La seconda, l’inquietante prospettiva fatta balenare come possibile nella manifesta evidenza del fatto che la pandemia è lungi dall’essere sconfitta, mente si verifica un rapido degradarsi della situazione militare internazionale.

Per l’Italia che ha bisogno di progredire, di superare l’arretratezza accumulata nel passato, queste due crisi sembrano indicare come unica via percorribile quella dell’unità, al di là delle diversità regionali, ormai del tutto irrilevanti in una fase, destinata durare non si sa quanto, in cui la prospettiva storica appropriata per la presenza sulla scena economica del mondo e per l’azione anti-pandemica e politica è tornata ad essere quella degli Stati, che fino a ieri tutti dichiaravano morti e sepolti. Ma che, nella crisi della globalizzazione, l’unità del genere umano chiama ad agire avendo come principio regolatore e disciplinante quello di un rinnovato internazionalismo.

Giuseppe Sacco

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