Segue la prima parte di questo articolo pubblicata ieri (CLICCA QUI)

L’alleanza militare occidentale, la NATO, avrebbe ancora una funzione preziosa a patto di aggiornare la propria lettura della realtà internazionale; ci si dimentica troppo spesso la lezione di Clausewitz condensata nel celebre aforisma “la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi”: un’azione militare preceduta da una politica cattiva o obsoleta è destinata presto o tardi al fallimento. Negli USA abita un anziano professore che di tutto questo è lucidamente consapevole: purtroppo Henry Kyssinger ha 99 anni (il nostro Sergio Romano ne ha 93 e la pensa più o meno come il collega americano) e i giovani non hanno voglia di dargli retta.

I filoputiniani nostrani (non facciamoci illusioni, esistono) insinuano che dopo anni di provocazioni e di dog barking la Russia non poteva esimersi anche per ragioni difensive, giacché la miglior difesa è l’attacco, dal varcare in armi il confine ucraino; esisterebbe secondo loro una sorta di Ius ad bellum (il diritto di muovere guerra, il diritto “alla”guerra” concetto cardine nelle variegate teorie della guerra giusta) che giustificherebbe la cosiddetta “operazione speciale”. Anche quest’argomentazione, che pulsa sotto traccia, trae una semplicistica e arbitraria deduzione dalle parole del Papa: presuppone una sorta di determinismo in base al quale un’azione produrrebbe meccanicisticamente determinate conseguenze assolvendo implicitamente sotto il profilo morale il suo autore. Questo sarebbe forse vero in un universo governato dagli algoritmi, ma per fortuna, almeno per ora, l’intelligenza artificiale non ha ancora preso il sopravvento sulla natura umana.

Però mi sorge un sospetto: la Russia è un’oligarchia che, come mi scrivono in questi giorni drammatici alcuni amici di San Pietroburgo (i social sono ancora pienamente liberi), ha accentuato le sue peculiarità autocratiche a causa principalmente del progressivo isolamento cui è stata condannata dopo le “radiose giornate” di Pratica di Mare; ha re-agito come solo un’autocrazia sa fare, utilizzando la forza militare, quasi in virtù di una specie di riflesso pavloviano e si è volontariamente esclusa dal mondo “libero” accentuando il proprio isolamento.

È forse questo che si voleva ottenere?

Le provocazioni si sono intensificate nel corso degli ultimi anni sapendo che un’autocrazia conosce soprattutto il linguaggio della forza e avrebbe inevitabilmente compiuto una scelta sbagliata e fatale? Il rafforzamento indotto delle tendenze autocratiche in quel Paese era funzionale a giungere a un esito conflittuale che potrebbe preludere, secondo i disegni di qualche Stranamore occidentale, a una sua sconfitta definitiva, alla sua frantumazione? E all’eliminazione di almeno un attore sulla scena multipolare?

Anzi di due attori, perché paradossalmente senza la Russia l’Europa sarebbe molto più debole. E non è solo una questione di gas: la cultura russa è una controparte e, al tempo medesimo, un complemento di quella europea, un’alterità che s’integra nella sua identità più profonda e plurale. La Storia ci insegna che senza la Russia sotto il profilo politico e militare l’Europa non avrebbe resistito ai due tentativi imperiali da cui è stata minacciata, quello napoleonico e quello hitleriano: fra i “progettisti” degli assetti geopolitici e diplomatici che hanno garantito all’Europa alcuni decenni di pace, ci riferiamo ovviamente al congresso di Vienna e alla conferenza di Yalta, la Russia rivestì un ruolo centrale.

Molti aspettano un colpo d’ala da parte dell’Europa: un cessate il fuoco – prioritario, perché nel frattempo dum Romae loquitur gli ucraini sono carne da macello – e l’abbozzo di un trattato (già sollecitato prima da Eltsin e poi da Putin all’indomani del crollo del regime sovietico) capace di tracciare linee di sicurezza certe e condivise (comprendendo anche il rispetto della neutralità degli Stati cuscinetto) a separare le rispettive zone di influenza territoriale; e aprendo a una cooperazione nel dominio energetico, industriale, culturale. Purtroppo le cancellerie europee e la UE stanno manifestando tutta la propria debolezza politica e persino intellettuale: non si vedono giganti della diplomazia come Metternich o Talleyrand (il rappresentante della potenza sconfitta ricordava che in un buon negoziato le controparti devono saper perdere qualcosa; insomma la logica win win condizionata dal loss loss; bisognerebbe dare in tal senso qualche ripetizione a Lavrov, Stoltenberg e Zelensky).

La Russia dal canto suo sembra aver smarrito la finezza diplomatica dei Kossyghin e dei Gromiko, e dal punto di vista reputazionale la condotta delle operazioni militari è disastrosa, e alcune uccisioni di civili appaiono deliberate. La maggioranza degli esperti di diritto internazionale già non riconosce, pur con tutte le attenuanti del caso, lo Ius ad bellum dietro l’attacco, non siamo cioè in presenza tecnicamente di una guerra giusta. Ma accanto allo Ius ad bellum esiste lo Ius in bello, il diritto di guerra, che riguarda il modo con cui le operazioni militari, pur legittime, sono condotte. Le quattro convenzioni di Ginevra (e i protocolli aggiuntivi) stabiliscono essenzialmente il “Principio di distinzione” (la guerra deve coinvolgere per quanto possibile solo i militari) e il “Principio di proporzionalità” (gli attacchi devono essere proporzionati alle aggressioni subite e agli obiettivi in termini di forza impiegata e intensità). È molto probabile che i principi dello Ius in bello siano calpestati quotidianamente dalle forze di occupazione.

Tutto questo rischia di condizionare pesantemente le trattative quando e se inizieranno.

Termino con un’ultima osservazione: alcuni osservatori contrari all’invio di nuovi armamenti all’esercito ucraino (non sappiamo realmente chi li controlla per davvero e in che mani saranno consegnati in futuro) hanno evocato la pratica della “difesa popolare non violenta” (DPN, detta anche Civilian defence a evidenziare che tutta la popolazione è virtualmente chiamata a prendervi parte) da parte degli ucraini, ottenendo nel caso migliore un imbarazzato silenzio o incassando nel peggiore sguaiate irrisioni.

Il fatto è che questi signori conoscono la storia: di fronte a un nemico che intende esercitare un effettivo dominio sulle istituzioni e sull’economia di un Paese aggredito, le tecniche riconosciute dalla dottrina della DPN (il suo più famoso teorico Gene Sharp ne enumera 123) possono risultare estremamente efficaci; senza la collaborazione di tutta la popolazione civile è molto difficile esercitare con efficacia il potere sul sistema-Paese. Pensiamo all’effetto dirompente della marcia del sale promossa da Gandhi, pochi grammi di cloruro di sodio autoprodotto da migliaia di persone che misero in crisi l’orgoglio dell’Impero britannico.

Ma quest’articolo è già troppo lungo temo di avere annoiato i miei 25 lettori. Mi riservo di dedicare il mio prossimo scritto proprio al tema della difesa non violenta.

Mi limito ad aggiungere che la pratica non violenta è da intendersi come una forma di resistenza attiva che espone, come affermava Gandhi a proposito dei satyagrahi (i combattenti nonviolenti), al rischio di dover sacrificare la propria vita. Nulla a che vedere con il pacifismo che può contemplare l’accettazione passiva di una condizione dominata dall’ingiustizia.

Ed è una forma di lotta che apre alla possibilità di una riconciliazione autentica con il proprio nemico.

Andrea Griseri

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)

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