A livello mondiale, siamo ancora immersi nel pieno della pandemia e questo deve necessariamente continuare a preoccupare pure noi. Anche perché importanti Paesi europei vicini, come Francia e Spagna, tornano sotto pressione.
Intanto, per contro, a torto o a ragione, la stampa internazionale loda l’Italia come il Paese modello contro il Covid 19. Ma, in effetti, cosa c’è davvero da imparare da questo evento che ci ha colto alle spalle proditoriamente? Ne stiamo traendo oppure no qualche lezione?
In verità, anche il contagio, a ben vedere, suggerisce la necessità di una “trasformazione”. Che, nei termini in cui ne parla il nostro Manifesto ( CLICCA QUI ), non è un abito pronto da indossare. Al contrario, esige un percorso impegnativo, se non altro perché deve prendere le mosse da noi, dallo sguardo con cui accostiamo la realtà alla quale guardiamo sempre attraverso lo schermo dell’enorme apparato culturale che abbiamo ereditato dal corso intero della storia e, via via assimilato, aggiungendovi del nostro.
Di questo discutiamo: delle nostre rappresentazioni mentali; non della realtà in sé, ma dell’interpretazione che ne diamo, del valore simbolico che le attribuiamo. Le migrazioni, ad esempio.
Ci scontriamo sul fenomeno in sé o piuttosto sull’impatto che ha o temiamo possa avere sul nostro Paese o, forse, addirittura sulle suggestioni che pensiamo tale impatto possa esercitare su questo elettorato piuttosto che sull’altro?
Siamo interessati – vale per una parte e per l’altra – a trovare soluzioni o piuttosto ad evitarle perché, magari, fa comodo alimentare la controversia? Insomma, viviamo in quelli che Popper chiama i due mondi dei nostri stati mentali e dei contenuti oggettivi di pensiero, ben più che nel mondo delle cose fisiche e dei fatti, presi nella loro nuda consistenza.
Senonché, succede che, al contrario, questo filtro concettuale storicamente consolidato e frapposto tra noi e la realtà, che dovrebbe distillare i “fatti” e la loro cruda materialità, funzioni talvolta come una crosta impermeabile che impedisce di giungere al cuore della questione in esame.
Ci sono delle fasi – ed il nostro momento sembra essere uno di questi – in cui si avverte il bisogno di andare alla fonte, come se anche alla politica si dovesse applicare, ce lo insegna Husserl, il metodo della “riduzione eidetica” che mette tra parentesi ogni presupposto conoscitivo per accedere al “fenomeno” – quello sociale, nel nostro caso – in quanto tale e coglierlo nella sua immediatezza. Aggiungendo a questo primo momento un secondo passo che, seguendo il filosofo francese Francois Jullien, potremmo chiamare la traduzione dell’ “evento” in “avvento”.
Si tratta, insomma, di lasciare che le cose parlino; di consentire a ciò che è “reale” di dirsi nella sua originaria, primitiva consistenza, senza avanzare pregiudizialmente griglie interpretative già predisposte e finalizzate ad una lettura addomesticata e di comodo. Consentendo che, se mai, ciò che di per sé accade – la pandemia, ad esempio – cioè l’ “evento” che precede o eccede ogni nostra intenzione, sia assunto e fatto proprio come avvio consapevole, come “avvento”, di una fase o di un processo inedito.
“Trasformare” significa, dunque, anche assumere uno sguardo disincantato e libero, che, paradossalmente, diventa più penetrante nella misura in cui è, si potrebbe dire, più ingenuo, eppure capace di farsi istruire da ciò che accade attorno a noi. Ad esempio, la strettissima connessione per cui da una singola persona nella quale il virus ha compiuto il salto di specie, dall’animale all’uomo, sì è poi diffuso a livello planetario non suggerisce forse quanto davvero l’umanità sia “una”, facendo radicalmente giustizia di tante idiozie? Questa lettura un po’ “naif” o di senso comune non ha forse, in ogni caso una forte carica suggestiva, poco strutturata, ma comunque istruttiva?
Il fatto che il virus non faccia che riprodursi, cioè, in un certo senso, altro non sia che l’essenza della vita o, comunque, ne mostri il carattere distintivo, la capacità di perpetuarsi nel tempo, e tanto è bastato a mettere sotto scacco il nostro gigantesco apparato scientifico nel mondo intero, non suggerisce, in fondo, sentimenti di umiltà e di senso del limite che rischiavamo di smarrire?
L’ “evento” del distanziamento sociale quale “avvento” prepara un’ulteriore dissoluzione del rapporto sociale e della liquidità del tessuto civile oppure può, al contrario, segnare una inversione di tendenza ed un recupero effettivo di solidarietà e di senso di appartenenza ad un destino comune?
Altri fenomeni, dalla globalizzazione, al progresso delle scienze, all’incalzare delle tecnologie, alla questione ambientale, alla digitalizzazione della comunicazione, fino al crescente divario delle condizioni di ricchezza e povertà nel mondo e nei singoli Paesi pur sviluppati, avrebbero da dirci molto più di quanto non pensiamo, se fossimo capaci di osservarli con uno sguardo libero e “trasformato”.
Domenico Galbiati
Immagine utilizzata: Pixabay

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