Viviamo un tempo intriso di brutalità. Trova la sua espressione più eclatante nelle forme del potere e delle stesse relazioni internazionali. Eppure si tratta di una categoria interpretativa radicata, anzitutto, nella dimensione esistenziale della nostra vita quotidiana.

Avremmo bisogno di un approccio intensamente umano, di attitudine all’ascolto, ispirato alla capacità di una parte di riconoscere alla parte avversa la stessa legittimazione che rivendica per sé. Cioè capacità di accoglienza, di solidarietà reciproca, di coesione sociale.
Pur nella dialettica di posture differenti.

Avremmo bisogno di conoscere, non solo ricorrendo ai percorsi talvolta tortuosi della ragione, ma anche affidandoci ad una corrente di empatia, che nulla ha a che vedere con l’aleatorietà del sentimento con cui spesso viene confusa.

Avremmo bisogno di saper analizzare razionalmente a fondo il tempo che ci è dato vivere, collocandolo al posto che gli compete nel decorso incessante dell’ evoluzione del genere umano. Ma anche di “sentire” e comprendere la “cifra” che da’ conto dei nostri giorni, quei “segni del tempi” – li si chiamava così- che cercavamo di decifrare, a cavallo tra gli ultimi anni ‘50 ed i primi del decennio successivo, l’età dei “due Giovanni”.

Avremmo bisogno di quella mediazione alta che si ottiene solo alzando lo sguardo al di sopra della singolarità della propria visione per cogliere, in un sol colpo d’occhio, i caratteri di comparazione e di possibile affinità con altre visioni, pur differenti, tributarie di una costellazione di valori di altra provenienza.

Al contrario, prevalgono istinti primitivi, reazioni primordiali, riflessi sub-corticali, automatici, che rivelano, si potrebbe dire, quell’ “animalità” che pur ci appartiene. Domata dall’ intelligenza, trattenuta dalla ragione eppure pronta a scattare, a serramanico, quando sentiamo, sia pure confusamente, messa in gioco la nostra sopravvivenza, la nostra stessa facoltà d’esistere.

È come se vivessimo immersi in un mondo di sollecitazioni disparate che vanno oltre le soglie di sopportazione che sono inscritte nella stessa struttura biologica e psichica del nostro organismo. Ed è così che affiorano prepotenti sentimenti di paura e, ancor peggio, di angoscia che serpeggiano diffusamente nella vita di tutti i giorni.

La paura è il timore ragionato che sorge di fronte ad un pericolo di cui si ha contezza e, dunque, benché sofferta, rappresenta, infine, una postura costruttiva che sostiene l’ attitudine ad affrontare consapevolmente gli accidenti della vita.

Oggi, però, ci affligge soprattutto l’angoscia, quel sentimento impalpabile, sfuggente, eppure pervasivo che nasce dalla sensazione di essere esposti ad un pericolo incombente eppure indecifrabile, impossibile da ricondurre nell’alveo di una consapevolezza matura.

Ci sentiamo pericolosamente sospinti oltre un ideale equilibrio della vita, cosicché si afferma tutto ciò che sa di “conservazione” , sia nella vita individuale che collettiva, anche a costo di accondiscendere a pose reazionarie che pur non sarebbero nelle nostre corde.

L’enfatizzazione istintiva, prolungata dello cultura dell’ individualismo ci ha convinti che non abbiamo bisogno di altra fondazione che non siamo noi stessi ed il desiderio in cui prende forma la nostra singolare autenticità. Siamo forse giunti al punto in cui – come sosteneva Martin Heidegger – “solo un Dio ci può salvare”. Senonche’, molti non credono più che un tale Dio esista ed anche molti che ancora ci credono non ci si affidano più .

In ultima analisi – ma su questo si dovrà tornare – abbiamo smarrito quella connatura, originaria e fondativa dimensione della trascendenza, senza la quale fatichiamo a vivere.

Domenico Galbiati

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