Nel 1993, promossa da Luigi Granelli, fondammo l’”Associazione Popolari Intransigenti”. A me spettò il compito di seguire la tematica delle riforme istituzionali. Cosa che continuai a fare anche dopo la morte prematura di Luigi. Questa lunga ricerca mi ha condotto a produrre in ampio testo che è in corso di completamento. Con molto piacere ho accolto l’invito di Domenico Galbiati a renderne pubblica una piccola ma significativa parte.

Questo intervento segue l’articolo pubblicato lo scorso 10 marzo ( CLICCA QUI ).

 

La rete dei Comuni.

I comuni in Italia hanno avuto ed hanno la funzione di enti deputati alla amministrazione di base per la nostra Repubblica

I Comuni in Italia sono 7908 con circa sessanta milioni di abitanti. In Giappone, con più di 127 milioni di abitanti, sono circa 1.700, mentre nel secondo dopoguerra erano più di 12.000.

La 142/1990 ha ritenuto che i comuni (oggi variano dai 29 abitanti di Monterone ai 2.790.712 di Roma) non possono essere tutti amministrati nello stesso modo: Per i grandi comuni questa legge ha introdotto l’istituto di Città Metropolitana, mentre per i più piccoli ha introdotto degli strumenti di unione, di fusione e di scopo (per le comunità montane, ora soppresse) per avviare un processo democratico e unitivo, ma purtroppo esclusivamente volontario. Gli aggiornamenti a questa legge, uscite dalla tradizione centralistica di certa burocrazia ministeriale, hanno poi epurato dal testo i timidi intenti riformatori iniziali con il colpevole disinteresse dei ministri competenti e dei membri del parlamento.

    L’organizzazione dei servizi alla Persona.

Queste osservazioni inducono ad una riflessione sui  piccoli Comuni. Quelli con meno di 5.000 abitanti sono quasi il 70% del totale, per l’esattezza 5543 e nella maggior parte dei casi non sono in grado di espletare compiutamente le funzioni loro attribuite se non a costi, materiali e culturali assai pesanti. Ad esempio l’impegno a mantenere un presidio scolastico porta, nei comuni più piccoli a ricorrere alle pluriclassi nella scuola elementare, strutture didattiche che determinano poi una notevole differenziazione culturale. Inoltre la programmazione urbanistica, soprattutto  nei più piccoli, è troppe volte oggetto di scambio, a volte persino indecente, tra amministratori e amministrati. Inoltre è invalsa la consuetudine di fare in modo che gli appalti siano, quasi sempre, a trattativa privata, con una scarsa trasparenza dell’iter amministrativo. Il confronto democratico tra maggioranza e opposizione (quando quest’ultima è presente) troppe volte si riduce a trattative che a volte travalicano  anche i contini etici .

Si è così venuto a creare un enorme deficit di democrazia che favorisce un diffuso sistema clientelare che sta assumendo proporzioni sempre più rilevanti non solo tra cittadini ed eletti, ma anche tra eletti in questi comuni e quelli delle province. Infine vi è un rapporto troppe volte assai discutibile con gli eletti nelle Regioni causato dalla drammatica mancanza di risorse in questi piccoli enti.

Occorre infine sottolineare che i piccoli comuni sono molto più diffusi nelle regioni del Nord  (soprattutto nei territori un tempo costituenti il Regno di Sardegna) che nel Sud d’Italia con ovvie conseguenze di differenziazione sociale.

Un comune per essere in grado di assolvere compiutamente alle sue funzioni è necessario che sia costituito da almeno 3.000 abitanti, per poter attuare in modo minimo i servizi alla persona  e per avviare ad una consuetudine del metodo democratico gli  eletti che li amministrano sarebbe ottimale che questa quantità sia fissata in 5.000 ma questo comporterebbe una rivoluzione associati di troppo complessa gestione..

La quantità proposta non è casuale ma deriva da un dato statistico: l’indice di natalità nel 2020 è stato circa dello 0,7% a livello nazionale per cui si può prevedere che un comune con 3.000 abitanti abbia meno di 20 nuovi nati  all’anno (occorre considerare che gli indici di natalità sono inferiore nelle piccole realtà periferiche).

Questo valore minimo renderà superfluo l’utilizzo di molte collaborazioni esterne (soprattutto i tecnici comunali, professionisti che a volte non hanno il necessario distacco dalla loro professione) e determinerà nei nuovi enti il supporto di piante organiche complete e tali da assolvere ai servizi richiesti. Questa contrazione (si può presumere che possa comportare un taglio tra i 1.500/2.000 comuni) con il progressivo pensionamento del personale eccedente determinerà un notevole contenimento della spesa corrente, con valori difficilmente quantificabili, ma comunque di notevole consistenza.

Sarà opportuno, pur mantenendo l’attuale sistema elettorale maggioritario, introdurre una rappresentanza delle varietà locali afferenti al territorio in modo da garantirne una loro presenza nei Consigli Comunali. Infine sarà opportuno garantire i servizi comunali, attraverso sportelli presenti nelle precedenti realtà comunali.

La rete amministrativa delle aree vaste – Le funzioni amministrative di area vasta

La Costituzione, con l’articolo 5, dà un preciso indirizzo di promuovere le autonomie locali sottolineando la  necessità di attuare il più ampio decentramento nei servizi che dipendono dallo Stato. E’ opportuno che alla rete più alta delle autonomie, Province e Città Metropolitane debba spettare l’amministrazione dei servizi di area vasta (ivi compresi i servizi decentrati dello Stato), mentre ai Comuni spetterà  la realizzazione completa dei servizi alla persona. Questo  livello più alto non è mai stato compiutamente realizzato: le Province hanno mantenuto sostanzialmente le antiche funzioni prefettizie in atto dal 1861senza adeguarle a quella che avrebbe dovuto essere una più innovativa stagione Repubblicana.

Infine le Città Metropolitane sono state relegate, recedendo dalle indicazioni della 142/1990, a enti nominali privi di poteri amministrativi effettivi (a questo ha contribuito l’avversione tenace delle Regioni e dei comuni capoluogo (Milano docet).

E’ necessario che questa rete di più alto livello di autonomia assuma nuove e più impegnative funzioni amministrative sia per quanto riguarda il decentramento amministrativo dei poteri dello Stato, sia per la organizzazione dei servizi sopra comunali  liberandosi di  quella anomala ragnatela di enti che operano sui più disparati servizi amministrati e che si costituiscono su dei territori troppe volte con casualità e irrazionalità.

Alle autonomie locali spetterà in termini globali l’amministrazione di quanto legislativamente individuato e regolamentato da Stato e Regioni salvo quegli argomenti che per le loro singolarità debbano godere di una gestione estremamente sofisticata.

 Le Province.

L’Europa con il Recovery fund destinerà cospicui investimenti alla questione ambientale. Questi interventi verranno realizzati sui territori e che meglio di Province e di Città Metropolitane avrà la dimensione idonea a realizzare questi, ormai prossimi intenti. E’ opportuno introdurre più complesse funzioni nelle Province per attuare le relative disposizioni che verranno deliberate dallo Stato o dalle Regioni:

Le innovazioni che interesseranno amministrativamente le Province e le Città Metropolitane verteranno sui seguenti punti:

  • Il governo del territorio, superando con un organico piano di sviluppo di area vaste le asfittiche e controproducenti proposte di tanti piccole miopi visioni comunali (molte volte in antitesi tra loro).
  • Una gestione oculata e virtuosa dei beni demaniali e dei beni pubblici (soprattutto i beni dismessi e poi inutilizzati che si sono progressivamente degradati con una conseguente perdita di valore commerciale). La conservazione e la conseguente valorizzazione potranno poi determinare alienazioni fruttuose e non regalie ad opportunisti privati (gli eventuali ricavi, dedotti i costi di gestione, saranno attribuiti all’ente intestatario).
  • Per la gestione e la tutela dei beni storici artistici e paesistici, sia pubblici che privati, mobili e immobili, occorre che vengano accuratamente individuati e catalogati e poi valorizzati. Si tratta di un autentico tesoro del nostro Paese. Questa valorizzazione dovrà essere supportata da una ben più decentrata e coordinata azione in concerto con le Soprintendenze che manterranno una piena e autonoma responsabilità decisionale.
  • A supporto di queste innovazioni le Province si attiveranno per promuovere le strutture turistiche, dopo averle debitamente censite, con piani di sviluppo e con operazioni di coordinamento e di supporto per queste attività.
  • Analogo intervento riguarderà le strutture produttive agricole, con il censimento, il coordinamento e il supporto scientifico per le scelte produttive.

Accanto a questi nuovi impegnativi compiti le province si occuperanno della programmazione e regolamentazione della grande e media distribuzione commerciale, della determinazione delle dirigenze degli enti sopra comunali, attraverso pubblici concorsi, a partire dai servizi sanitari (ASL), del coordinamento delle concessioni e dello sviluppo delle aziende pubbliche o private dei trasporti a carattere provinciale e intercomunale, l’organizzazione territoriale delle strutture scolastiche di primo e secondo grado e la lo conservazione degli edifici delle scuole di secondo grado. Un’ultima innovazione riguarderà il coordinamento delle aziende de servizi amministrativi che dovranno essere attuati con piani coordinati da questi, una volta individuata la necessitò amministrativa di attuare ognuno di questi servizi

Alle competenze elencate potrebbero aggiungersene altre. L’articolo 5 della Costituzione lascia ampi spazi di interpretazione. Premeva piuttosto sottolineare la potenzialità di questi enti per contribuire al corretto funzionamento dello Stato in opposizione al centralismo Regionale introdotto insensatamente con le modifiche del titolo quinto nel 2001 e con la legge 56/2014 e di cui oggi tocchiamo con mano alcuni  effetti devastanti..

Le Province, per rendere efficaci i processi legati alle loro funzioni, abbiano un territorio adeguato e e con caratteristiche omogenee. La loro popolazione non sia inferiore alle 250.000 unità né superiore alla 750.000. Occorrerà infine ripristinare l’elezione diretta degli organi provinciali (Presidenza e   Consiglio).

 Le Città Metropolitane

Quando il territorio è vasto, il capoluogo è popoloso e il suo hinterland è in stretta   correlazione e densamente popolato, non può che essere amministrato unitariamente.

Per questi enti sarà necessario ripristinare l’indirizzo contenuto nella L.142/1990 dei due livelli amministrativi, per cui il Comune capoluogo cesserà di essere e la Città Metropolitana assumerà tutte le funzioni amministrative di area vasta similmente alle Province. Il comune capoluogo verrà suddiviso in comuni urbani. I comuni sub urbani attueranno un coordinamento transitorio mediante zone omogenee (con durate predefinita) per perseguire una riorganizzazione amministrativa e favorire le aggregazioni tra comuni, solo se supportata da una omogeneità territoriale e da una dimensione adeguata all’amministrare metropolitano..

Inoltre quanto previsto per le Province sarà esteso alle Città Metropolitane.

Le città metropolitane siano afferenti ad un territorio con almeno 750.000 abitanti.

Una organizzazione così complessa non potrà che essere amministrata da un Sindaco e da un Consiglio Metropolitano democraticamente eletti.

Arturo Bodini

 

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