Non si scrive molto di sport su queste pagine virtuali. Ricordo il comunicato di gennaio scorso in occasione dell’intervento della governo Conte bis, che, praticamente al suo termine, risolse con decreto legge la questione della autonomia dello sport anche in relazione a preoccupazioni del CIO. Ma si stanno svolgendo finalmente le Olimpiadi di Tokyo 2020 (c’è una certa atemporalità, ma la cadenza quadriennale resisterà alla discontinuità che la Pandemia ha imposto a tanti altri campi: seguirà Parigi 2024, Los Angeles 2028, Brisbane 2032). Tokyo 2020 è una dimostrazione di tenacia, che non ha meno valore quando è nutrita di interessi economici, dalla paura di perdite, dal rifiuto di fallire.
Le Olimpiadi propongono miti e modelli che mantengono ancora un nucleo vitale. Pochi ricordi di Roma 1960, radiofonici, hanno destato in me un fascino che resiste. Quando poi dopo quattro anni di attesa o più le Olimpiadi arrivano, riesco a seguirle solo per qualche minuto ( così il fascino infantile non ha il tempo per essere messo in discussione, e dura).
Ma che cosa sono oggi le Olimpiadi? Studiammo a scuola che quelle antiche erano un rito politico-religioso di sospensione della guerra. Ma non è così per le Olimpiadi moderne. Per tre volte nel XX secolo furono le guerre a sospendere le Olimpiadi (nel 1916, 1940, 1944), e non viceversa. Nel XXI secolo la situazione è più ambigua. Non c’è la guerra mondiale dichiarata, non marciano gli opliti tra le capitali globali e nessuna difesa è in corso alle Termopili.
Ma – come dice il Papa – c’è la guerra mondiale a pezzi. E poi c’è il terrorismo. C’è la competizione ostinata e feroce per il predominio tecnologico, finanziario, economico. C’è l’occupazione economica e militare dello spazio, che sarebbe bene comune più di qualunque altro. C’è la spietatezza delle diseguaglianze economiche in ragione delle quali gli europei e i nordamericani sono ben più che in maggioranza vaccinati e gli africani (sembra) per poco più dell1%.
Le diseguaglianze economiche non decidono solo il livello di benessere, o le possibilità di realizzarsi delle persone (le capabilities di Amartya Sen), ma decidono della vita e della morte. Quante guerre non dichiarate, combattute contro le popolazioni civili. La novità, dunque, è che le Olimpiadi si fanno senza bisogno di sospendere le guerre.
I disagi, le sofferenze e anche le buone intenzioni del mondo faticano a introdursi nello spazio olimpico (o vengono espunti), si tratti di gesti antirazzisti, di manifestazioni di razzismo, dell’atleta algerino che si ritira per non affrontare l’atleta israeliano, di intolleranze attive e passive. Tutelare lo spazio olimpico come uno spazio sterile eternizza le Olimpiadi a prezzo dello svuotamento dei significati. Sono dunque solo un mega spettacolo commerciale globale, da un lato la prosecuzione della competizione economica e militare con altri mezzi, dall’altra il solito business di diritti televisivi? Del resto gli sponsor non mancano intorno ai campioni specie di maggior successo.
Poi ad Olimpia convergevano sia atleti sia spettatori, mentre noi stiamo perfezionando le Olimpiadi a distanza da un lato, e dall’altro lo stesso gigantismo innalza sempre di più le soglie di partecipazione sicché le Olimpiadi non sono più affatto aperte a tutti.
Non penso che le Olimpiadi vadano soppresse. Hanno pur sempre tante utilità. Sono, per paesi minori e per atleti delle periferie del mondo, occasione di promozione sociale (pensiamo ai velocisti giamaicani e ai fondisti kenioti ed etiopi, e ad altri meno noti). Fanno conoscere sport che altrimenti rimangono solo di alcuni paesi. Aggiornano la conoscenza delle tecniche. Sono anche globalizzazione delle persone ed esercizio di applicazione di regole condivise.
Ma i vertici dei comitati olimpici nazionali e del CIO dovrebbero assumersi il compito di una innovazione nei significati (e non solo aggiungendo e togliendo qualche specialità) e nel proporre il messaggio dello sport perché sia più diffusamente un dinamismo di fraternità, di promozione sociale, di adeguamento di opportunità. Lo sport dovrebbe essere più efficacemente un elemento fecondo di fraternità, e non accettato perché sterilizzato.
Non basta però parlare dello sport nei suoi massimi valori agonistici. E, tornando in Italia, una promozione potente, su larga scala, della pratica sportiva potrebbe essere uno degli strumenti da impiegare per coinvolgere e attrarre i troppi ragazzi e giovani che sembrano, per così dire, ristagnare ai margini della società. Penso ai minori nel RdC, agli ELET (gli abbandoni scolastici precoci), ai NEET di cui si è già trattato qui, alle tante e ai tanti che sarebbe compito degli adulti (e dei coetanei) incoraggiare, rimotivare, prendere dentro un percorso educativo sul campo. Non penso che lo sport abbia poteri mirabolanti e miracolistici, ma sarebbe non responsabile prescinderne tra le leve di una politica giovanile necessaria, e ora nominata (c’è anche un incarico ministeriale …) ma forse non attuata. Non è un movimento sportivo separato nelle sue dinamiche e nella sua organizzazione, che occorre. Serve che un grande movimento di solidarietà e di sussidiarietà assuma pienamente tra i suoi mezzi e i suoi valori anche quelli della pratica sportiva (persino in un rilancio di tanti oratori).
Come in ogni vera sussidiarietà, che non significa abbandonare a se stessa la società civile, occorre che le istituzioni vengano incontro per facilitare investimenti in strutture e attrezzature e se occorre per assicurare qualità. Non è tempi di guardare allo sport con distacco, o di lasciarlo solo a chi ne fa il suo hobby o il suo mestiere. È ora dimettere a disposizione dei nostri ragazzi opportunità più accessibili e più numerose di pratica sportiva.
Vincenzo Mannino

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