La lezione, tenuta l’11 luglio a Cambridge (Massachussets) al National Bureau of Economic Research, merita molta più attenzione di quella che gli hanno dedicato pur importanti giornali come il Corriere che le dà meno di un quarto dello spazio che dedica a semi-sconosciuti personaggi dello show business.

Una lezione importante perché, con la competenza di chi ha vissuto queste cose, analizza i problemi intrinseci all’attuale assetto dell’Unione Europea, e le potenziali conseguenze negative in tempi di crisi, ma ne vede anche le capacità di reazione, e soprattutto delinea i cambiamenti necessari per far fronte alle sfide odierne e prossime. Ulteriore merito di questa lezione è che sia proprio un grande tecnocrate (e su questo non ci sono dubbi) a dare una lezione fortemente politica.  Come sa chi non si fa condizionare da schemi troppo rigidi, la consapevolezza politica non è privilegio di una corporazione (i cosiddetti “politici”) che a volte purtroppo ne manca assai, ma è patrimonio di chi non smette di esercitare lo sguardo sui problemi veri del momento e si sente responsabile per il bene della civitas.

Ma veniamo alla lezione di Draghi che sintetizzerò nei suoi elementi essenziali. Comprensibilmente, dato il luogo, il nostro inizia da un celebre dibattito innescato da autorevoli economisti americani (Mundell, Feldstein, ecc.) sulle cosiddette “aree valutarie ottimali”. In sostanza la tesi era che in mancanza di una significativa omogeneità nei grandi indicatori economici tra i paesi aderenti ad una Unione monetaria, si sarebbero generati shock asimmetrici che avrebbero portato alla crisi della stessa. Draghi non nega che l’Eurozona mancasse, alla sua origine, della omogeneità che quegli economisti richiedevano e riconosce che questa situazione abbia generato nella crisi del 2008-12 pesanti asimmetrie tra i paesi membri, ma sostiene che, come è avvenuto in Europa, un determinato intervento politico delle istituzioni sovranazionali (Banca Centrale, Consiglio e Commissione), armato di ingenti risorse finanziarie comuni, ha contrastato efficacemente le spinte asimmetriche e alla frammentazione (per esempio abbassando drasticamente i tassi di interesse nei paesi più colpiti, rifinanziando i sistemi bancari, ecc.). Si è così evitato, grazie al prevalere della fedeltà politica al lungo e faticoso progetto di integrazione europea e ai suoi ideali, il collasso dell’Eurozona (con tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate per l’intera Unione). In forme diverse questo si è ripetuto durante la crisi pandemica con il grande piano di ripresa (New Generation EU). La variabile politica è dunque molto rilevante e può bilanciare le variabili economiche.

Tutto bene allora? Draghi è troppo consapevole dei problemi europei per accontentarsi di quanto l’Unione abbia fatto. Le sfide non sono finite e quelle davanti all’Europa sono di prima grandezza: sfida ambientale, sfida della sicurezza (ora a Est, ma sempre di più anche a Sud, nel Mediterraneo e in Africa), sfida delle grandi catene di approvvigionamento e dell’autonomia strategica (e qui c’è tutto il rapporto con la Cina da rivedere), sfida delle migrazioni. Tutte queste sfide richiederanno massicci investimenti nei prossimi anni. La scelta è se lasciarne la responsabilità principale agli stati membri mentre l’Unione si limita a dettare regole comuni, oppure decidere che sia l’Unione a farsene carico in parte importante con un impegno di bilancio decisamente maggiore di quello attuale. Qui la risposta di Draghi è ancora una volta molto chiara. Lasciare la responsabilità agli stati membri significherebbe, con alta probabilità, non raggiungere la massa critica di risorse necessari per queste sfide, ma cosa ancora più grave allargare il divario tra gli stati che per la loro disponibilità di bilancio (fiscal space) si possono permettere interventi massicci e e quelli che invece non possono. Si riaprirebbero prospettive di frammentazione (accompagnate probabilmente da spinte populiste anti-europee). La strada da perseguire è allora di dare all’Unione risorse di bilancio ben più consistenti e di apprestare regole di decisione meno dipendenti dall’unanimità. E per questo non bisogna aver paura di mettere mano ai trattati, cioè alla nostra costituzione europea.

La sintesi che ho fatto spero non tradisca troppo un discorso ben altrimenti articolato e sostenuto da una grande conoscenza sia del funzionamento dell’economia che dell’Unione Europea, ma aiuti comunque ad andare al cuore della questione.

La lettura di Draghi coglie bene quale è il maggior rischio per l’Unione, la frammentazione lungo le linee degli stati nazionali e tra stati forti e deboli. Per impedire questo nel momento in cui ci troviamo davanti grandi sfide e a un probabile (e necessario) allargamento a nuovi stati (quelli dei Balcani e poi l’Ucraina) la strada vera ed anche pienamente realista è un importante rafforzamento della componente federale (a qualcuno questa parola fa paura, ma non dovrebbe perché non significa affatto centralismo) dell’Unione sia sul piano delle risorse che della funzionalità delle istituzioni centrali (Commissione e Consiglio Europeo).

Sulla lezione Draghi ci farebbe piacere sentire che giudizio ne danno il capo del nostro governo, ma anche i vari leader dell’opposizione.  Chi scrive, per quel che vale il suo giudizio, pensa che dovrebbe essere un elemento essenziale della prossima campagna per le elezioni europee per dare a queste gravi scelte il peso dell’investitura popolare. Aggiungo anche che sarebbe veramente un grave spreco se l’Europa si privasse di una personalità come Draghi per una delle cariche di vertice da rinnovare nei prossimi mesi.

Maurizio Cotta

About Author