I due articoli precedenti di Massimo Molteni in materia sono stati pubblicati il giorno 11 gennaio (CLICCA QUI) e il 15 gennaio us (CLICCA QUI)

Ciascuno di noi è intuitivamente in grado di percepire se si sente in salute: “sto bene”, “mi sento in forma”, “mi sento in perfetta salute”. Come tradurre questa percezione in una condizione descrivibile e “operazionalizzabile” ( termine entrato tra quelli utilizzati nella psicologia- psicoanalisi, n.d.e.)  è assai più complesso: quali sono i parametri di una condizione di salute descrivibili oggettivamente?

L’OMS da tempo ha coniato la seguente definizione per descrivere cosa è Salute: “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia”, adottata da molti stati, Italia compresa. Il benessere è, così, una “condizione” molto complessa, dinamica, che consente a ciascun individuo di raggiungere o mantenere il proprio potenziale all’interno del proprio contesto sociale: sempre definizioni OMS.

Il giudizio sull’essere in salute non può, quindi, prescindere dal giudizio e dalla percezione soggettiva che si estrinseca sempre in una condizione relazionale e sociale: l’art 32 della nostra Costituzione tutela dunque questo concetto di salute come diritto dell’individuo e interesse di tutti. Ai servizi sanitari è affidato il compito di rendere effettiva la tutela prevista.

La medicina o scienza medica ha sviluppato enormi progressi quando, reificando l’individuo, e grazie alla tecnologia, ne ha potuto descrivere e oggettivare le condizioni fisiche e biologiche: attraverso precisi parametri clinico/biologici cataloga le diverse condizioni che differiscono da una norma e le classifica come “malattia”: dalla diagnosi procede ad applicare terapie finalizzate al ripristino omeostatico dei parametri clinico-biologici alterati o a mantenerli in un “range” di accettabilità.  In questo continuo miglioramento della capacità di analisi, comprensione e descrizione dei parametri clinico-biologici, la medicina è arrivata a definire condizioni di malattia prima che queste siano percepite come tali dal soggetto, e, quel che forse è peggio, a considerare la condizione di “non salute”, solo quando oggettivabile con parametri prevalentemente biometrici.

Due tipi di conflitto si sono così generati: tra l’individuo e la medicina, poiché  una condizione soggettiva e relazionale – la salute – è stata trasformata in un algoritmo decisionale costruito solo su  parametri oggettivi relativi alla sola malattia, il cui giudizio finale è esterno al soggetto, con tutti i conseguenti rischi anche etici (nel distratto silenzio dei più);  e tra la medicina e lo stesso corpo sociale perché, circoscritto lo stato di salute e di benessere all’interno di soli parametri scientifici oggettivi, la tentazione di trasformare i “suggerimenti” preventivi in comportamenti o stili di  vita da imporre è sempre incombente (come “moral suasion”, per ora).

Qualche esempio: l’ipercolesterolemia spesso è diagnosticata con un riscontro casuale di un parametro biologico alterato senza che l’individuo abbia nessun disagio e nessuna percezione di malattia: la scienza medica ha dimostrato che questa condizione, anche se non altera per nulla al momento la condizione di  salute dell’individuo, è correlata ad un aumentato rischio di malattie successive che sono poi percepite come influenzanti negativamente le condizioni di salute. L’ipercolesterolemia è quindi una malattia, quasi sempre senza sintomi clinici, che non impatta sulla salute percepita di un individuo, ma che pure tutti curiamo: esami diagnostici, terapie mediche, diete, cambio di stili di vita, prevenzione.

Allora, un servizio sanitario agisce per tutelare la salute anche tramite la prevenzione: azione importantissima, ma che sul versante socio-culturale, quando non definiti bene confini e obiettivi, apre al rischio di una eccessiva medicalizzazione della vita stessa: lo stato di emergenza dato dalla Pandemia ha, per condizione di necessità, slatentizzato ciò che già era in essere in maniera più subdola. Famoso e noto il caso di Angiolina Jolie che ha dichiarato di essersi sottoposta a mastectomia e ovariectomia per abbattere il rischio di un tumore, stante una sua particolare caratterizzazione genetica.

In questo caso, interventi che hanno modificato e mutilato il corpo per prevenire, probabilisticamente, future malattie, di cui peraltro non c’era certezza: è verosimile che la probabilità di una futura grave malattia causasse un tale insopportabile stato di malessere (ossia non salute) che ha fatto propendere per complessi interventi chirurgici; in questo caso, una percezione soggettiva di “non salute” ha determinato un intervento di “cura preventiva” che, in un sistema assicurativo sostanzialmente privato come quello americano non ha creato particolari problemi …… economici. E in un sistema pubblico?

Molti credono che il problema si possa risolvere con le linee-guida che definiscono cosa sia opportuno o necessario fare: se le linee-guida si trasformassero in codici di comportamento cogente, si passerebbe da una azione di “tutela della salute”, ad una azione di limitazione delle libertà personali. Peraltro, le linee-guida non si estrinsecano solo in comportamenti clinici  da tenere (da cui l’individuo, per ora, si può difendere), ma anche in cure da non erogare. In un Sistema Sanitario Pubblico e Universale, in perenne conflitto di sostenibilità economica, i rischi di scivolamento verso uno “stato etico” (nel campo della salute) sono meno remoti di quel che sembra: dalla “sugar tax”, alla non erogabilità  di  alcune tipologie d’interventi, ai vincoli di “setting” o di remunerazione, in relazione a precisi codici diagnostici … Pratiche già vistosamente in essere come ben sanno i medici di medicina generale.

In un contesto “privatistico” come quello nord-americano, è la capienza reddituale del singolo a regolare l’accesso ai servizi sanitari: e, entro certi limiti, nessuno mette in discussione che sia l’individuo a dover scegliere ciò che serve per mantenere le sue condizioni di buona salute. In realtà, anche in nord-America, l’individuo è “manipolato” nei suoi indirizzi di scelta, perché è il mercato a influenzare le sue scelte, vista la enorme asimmetria di conoscenze tra individuo e “industria del benessere”. In un sistema come quello italiano, abbiamo entrambi i rischi: di mercato, perché anche in Italia l’industria del benessere manipola il giudizio individuale facendo assurgere a “bisogno” – per di più non voluttuario – ciò che spesso è solo suggestione da marketing; dello Stato che rischia di definire lui ciò che serve, sia per difendere i suoi equilibri di sostenibilità, sia per la tentazione insita in tutte le Istituzioni Statali di definire loro a priori ciò che serve per la Salute dell’individuo, utilizzando beninteso “criteri scientifici”, anche in buona fede. In fondo, il cittadino, specie in Italia, è sempre un po’ suddito….

La Scienza, quella vera, ben conosce che nulla può essere detto di “sicuramente scientifico” (ossia assolutamente certo) in campi ad elevata soggettività e relazionalità: fa comodo, dimenticarselo. La confusione che regna sovrana nel Sistema Sanitario Italiano non è solo legata a problemi di organizzazione, carenza di risorse o malaffare (ben inteso: componenti pure presenti), ma deriva principalmente dalla continua omissione circa il mandato dei servizi sanitari (figurarsi poi quelli socio-sanitari, ancora più complessi e complicati) per dare evidenza al dettato costituzionale. Del resto, se non si fa chiarezza sul concetto di Salute, su chi sia titolare delle scelte e del giudizio sulla condizione di salute, e di come un servizio debba essere, per l’appunto, a “servizio”, nei limiti definiti da ciò che l’organo politico (il Parlamento) definisce come essenziale per la salute e nei confini delle risorse date, è difficile trovare il bandolo di una matassa, di per sé già molto aggrovigliata.

Un iniziale tentativo era stato fatto nel 2001 con il primo provvedimento sui LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) che aveva cercato di definire cosa si dovesse intendere per Livello Essenziale, salvo poi perdersi nel tentativo di definire i confini di appropriatezza di alcune tipologie di prestazioni necessarie per dare concretezza al livello di assistenza da garantire. Nessuno si è accorto che i decreti 502 e 517, e in parte il 229, sono inconciliabili con i principi della 833 e tenerli insieme può solo dare origine a ircocervi costosi e rischiosi, di cui i LEA sono solo un esempio? Con il successivo provvedimento del 2017 che ha rivisto l’impianto precedente, il passaggio da Livello Essenziale di Assistenza a Livello Essenziale di Prestazioni è diventato ancora più evidente: non dichiarato, ma di fatto!

Se la Salute viene tutelata dallo Stato solo per il tramite di una somma di prestazioni sanitarie e socio-sanitarie puntiformi, il disastro diventa epocale: la malattia diventa “commercio di stato” (con tutti i pro e i contro) e la condizione di salute trasformata in una individualistica sommatoria di “oggetti” di cui rivendicare il diritto, al market della Sanità: i tempi di attesa per le varie prestazioni peggiorano di anno in anno, pur aumentando in numero assoluto anno su anno… La domanda esprime un bisogno e una ansia di salute che, invece di essere raccolta, è incanalata verso il mercato sanitario.

In questo impianto “prestazionale”, diventano cruciali le “tariffe” delle prestazioni così come la loro puntiforme descrizione: la ormai prossima revisione del nomenclatore tariffario delle prestazioni specialistiche, di protesica e delle tariffe DRG, è accompagnata da una esaustiva disamina tutta legata ai costi e all’impatto economico sul sistema, senza alcun riferimento ad almeno alcuni indicatori di salute che si suppone debbano essere raccolti, per valutare se la massa delle attività svolte raggiunge almeno parzialmente l’obiettivo di tutela della Salute dato dalla Costituzione (i tempi massimi di erogazione di una prestazione non sono indicatori di salute, ma semmai di efficienza organizzativa….). Nelle prestazioni specialistiche del nuovo nomenclatore, si fa più volte riferimento ad analisi di “costi standard”, sicuramente validi per le prestazioni tecnologiche (dove per altro le variabili “tempo di ammortamento del bene” e “numerosità di erogazione per centro erogatore” per  definire i costi di ribaltamento, descrivono  in maniera evidente la ratio sottesa e dove stanno i possibili “inghippi”..), mentre le tariffe per le prestazioni puramente professionali permangono bizzarre, credo a giudizio anche dei non esperti.

Qualche breve esempio: Rieducazione individuale all’autonomia nelle attività della vita quotidiana. Relative a mobilità, alla cura della propria persona, alla vita domestica secondo ICF. Incluso: ergonomia articolare ed eventuale addestramento del Care Giver” (si presume che in questi casi il bisogno sia rilevante e rivolto a fasce particolarmente fragili): euro 9,80. “Rieducazione in gruppo delle funzioni mentali globali secondo l’ICF. Per seduta della durata di 60 min. e caratterizzata prevalentemente dall’esercizio terapeutico cognitivo e logopedico. Ciclo fino a 10 sedute: euro 4,05” (i cinque centesimi aggiunti ai 4 euro danno l’idea della meticolosità della analisi di calcolo….).

Con questo impianto di fondo, che persiste da anni con assoluta acriticità logica, il mondo politico e degli “stakeholder” (portatori di interessi) parlano della necessità di rafforzamento delle Medicina Territoriale e così sono diventati centrali i “distretti” e le “case della comunità o della salute”: organigrammi e strutture. Buffo: case della comunità … ma le comunità le sta interpellando qualcuno? Cosa si deve fare in questi luoghi di nuovo conio che dovrebbero riempire la penisola? Eseguire le somme di prestazioni puntigliosamente descritte e tariffate?

Salute: ma di quale salute si sta parlando? E mentre aspettiamo di capire come si intendono valorizzare quelle complesse attività assistenziali territoriali (un esempio fra i tanti: le cure  palliative: non si crederà davvero che assistere e accompagnare un malato grave e terminale e la sua famiglia, con tutto il carico di sofferenza, non solo fisica, di angoscia e anche spesso di isolamento socio-ambientale, sia fattibile attraverso il puntiforme elenco delle prestazioni erogabili, da prevedere rigorosamente prima di cominciare l’intervento? Fermarsi dieci minuti a raccogliere il pianto di un famigliare affranto con quale codice lo classifichiamo (visto che non è stato previsto…)?  e la probabile tariffa  di euro 1,10 sarà  inclusiva di disinfezione della mano dopo aver asciugato le lacrime o il costo del materiale sarà a parte, dopo analisi dei costi standard?)  che, ruotando attorno al medico di medicina generale e all’infermiere di  comunità, grazie al coinvolgimento delle comunità e alla co-progettazione affidata agli ETS, dovrebbero essere il fulcro per ridisegnare un servizio sanitario che si sforza di tutelare la Salute, è appena uscita una ennesima circolare del Ministero della Salute di questa infinita pandemia con l’intento di regolare in maniera “analitica” il trasporto, da una abitazione all’altra, di una persona positiva al Covid,  asintomatica o paucisintomatica, durante il periodo di isolamento, per il tramite di autovettura privata (la propria, immaginiamo) con un “range” chilometrico massimo di spostamento, previa autorizzazione formale (?!) delle Asl competenti, avvisando il competente ministero e la eventuale regione verso cui il “paziente Covid asintomatico” si dovesse recare…

Credo che non sia più tempo di riforme: purtroppo il cambiamento o sarà rivoluzionario o non sarà.

Massimo Molteni

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