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Sonnambuli

Nel pieno del pandemonio provocato dall’inattesa posizione assunta da Trump sulla questione ucraina, siamo andati a riprendere– per riproporlo ai lettori nelle pagine che seguono– l’articolo di Giuseppe Sacco dal titolo “Come sonnambuli, verso la guerra?”.  Lo pubblicammo il 19 gennaio 2022 (CLICCA QUI), poco più di un mese prima della “operazione militare speciale”, con cui la guerra è tornata nel continente europeo. 

Da quella anomala condizione, di fronte ad una ingiustificabile invasione di uno stato sovrano, i più furono allora costretti ad uscire precipitosamente, con tutte le conseguenze che accompagnano tali improvvisi risvegli. Ed infatti, dopo il 24 febbraio di tre anni fa, molti aspetti del mondo che conoscevamo non sono stati più come prima.

Assieme al “sonnambulismo” dei politici occidentali, e conseguentemente delle popolazioni da essi governate, a determinare quella tragica e sanguinosa svolta concorsero, come sempre accade in vicende tanto traumatiche ed irreparabili, molti altri fattori, che nei successivi tre anni di guerra sono stati talora sottolineati con forza o, altre volte, sottovalutati. 

Papa Francesco, parlando “dell’abbaiare” della Nato alle porte della Russia, ha descritto in maniera straordinariamente efficace uno di questi fattori, indubbiamente il più importante: il clima di retorica bellicista improvvidamente creato dagli eccessi propagandistici non solo dei media, ma anche dei due successivi Segretari dell’Organizzazione, accompagnati da assai realistiche esercitazioni militari occidentali sul suolo ucraino.

Ma vi era stato anche il caotico ritiro americano dall’Afghanistan nell’agosto 2021, deciso dal Presidente Biden in conseguenza degli accordi di Doha sottoscritti con i Talebani dal suo predecessore Trump. E poi, il mondo intero era ancora nel pieno dei contraccolpi provocati dal diffondersi dell’epidemia da Covid-19, con tutte le sue disastrose conseguenze economiche e psicologiche, ma anche con le accuse alla Cina di aver deliberatamente diffuso, o addirittura creato, il virus responsabile. L’Occidente appariva, insomma, più confuso che mai.

E’ probabile che Vladimir Putin abbia ritenuto quello il momento utile per sfruttare al massimo una situazione di incertezza, cosa che venne resa plasticamente comprensibile dall’immediata offerta di Joe Biden di mettere in salvo Zelensky e le autorità ucraine. Dando per scontato che il loro paese non fosse in grado di reggere ad un blitz quale quello appena tentato dall’esercito russo.

Tre anni dopo, possiamo constatare che così non è stato. Ma lo abbiamo appreso al prezzo di un numero enorme di vite umane, e di ingenti risorse bruciate nel conflitto. Oltre a veder malamente ferito, come ricorda Giuseppe Sacco in quell’articolo, il Diritto internazionale, né più né meno come accaduto cento anni prima. E con esso un traballante Ordine mondiale, in qualche modo emerso con la cosiddetta globalizzazione e la partecipazione, a pieno titolo, della Cina al mercato internazionale. Anzi, a proposito di Cina, c’è da chiedersi se l’invasione dell’Ucraina non possa aver trovato un terreno fertile anche a seguito dei crescenti preparativi, soprattutto da parte statunitense, ad una sorta di “conflitto” con il gigante asiatico che godeva, e ancora gode, del più alto surplus commerciale nei confronti dell’America.

Oggi siamo ancora nella stessa condizione del febbraio del 2022. Anche se sono evidenti i segni di una evoluzione nei rapporti tra Mosca e Pechino. Così come i tentativi di Trump di modificare il gioco statunitense tornando ad occuparsi più della Cina che della Russia e, così facendo, ridimensionando, e non di poco, l’attenzione nei confronti dell’Ucraina.

In definita, si potrebbe dire, anche Biden aprì il suo quadriennio con il disimpegno afghano. E Trump potrebbe volerne seguirne le orme abbandonando Zelensky, e più in generale riducendo gli impegni nei confronti dello scacchiere europeo. Al quale l’America è però legata da troppi interessi ed interdipendenze culturali, strategiche, ed economiche, per poterli cancellare in uno scatto d’orgoglio imperiale

L’Europa non può ignorare tutto ciò. E le toccherà probabilmente di provare ad uscire definitivamente dal “sonnambulismo” degli ultimi decenni, per ritrovarsi in uno scenario del tutto nuovo e di cui non è stato scritto neppure il primo capitolo. Anche se il patriottico slogan ripetuto sull’altra sponda dell’Atlantico “Make America great again” anticipa– più che le possibili conseguenze concrete–il timore di un metodo, forse un po’ troppo semplicistico nella sua brutalità.

“Sonnambuli” – in un celebre libro che porta questo stesso titolo – furono definiti i governi europei che scivolarono nella Prima Guerra Mondiale “presentendo il cataclisma, simulando allarmi, ma senza far nulla per scongiurarla”. Da allora – ha scritto qualche anno fa la figlia di Altiero Spinelli, Barbara – “molte cose sono cambiate. L’Europa ha istituzioni comuni, l’imperialismo territoriale è svanito. Non si combatte più per spostare confini”. Eppure, l’Unione non è in pace, e la crisi che traversa la sta squarciando come già nel 1913-14. Gli Stati odierni, oggi come allora, sono incapaci di trarre conseguenze da quello che apparentemente presagiscono.”

L’innesco che diede fuoco alle polveri, fu allora il nazionalismo anti-austriaco di un pugno di estremisti serbi, che portò all’attentato mortale, a Sarajevo, contro l’erede al trono imperiale, l’Arciduca Francesco Ferdinando. Ma la vera responsabilità – si è detto e si è ripetuto dopo di allora – fu dei paesi che risultarono alla fine sconfitti, la Germania e l’Austria.

Anche le ragioni geopolitiche sono note. I popoli tedeschi, che nel cuore dell’Europa formavano (e formano) un blocco più potente di qualsiasi altro popolo europeo, a parte quello russo, erano afflitti dalla sindrome di essere accerchiati da undici altre nazioni, ciascuna più debole di loro, ma che – se alleate, come aveva sempre cercato di renderle la diplomazia della Francia – potevano giungere a assediarli in una tenaglia.

Ben due “trappole di Tucidide”

A quell’epoca, le esportazioni manifatturiere della Germania avevano appena superato quelle della Gran Bretagna, minacciandone l’egemonia e rendendo verosimile che scattasse quella che oggi chiameremmo una “trappola di Tucidide”. Ma a sua volta, temeva di essere esposta ad un analogo scontro con la Russia. I Tedeschi paventavano infatti che il tardivo, ma forte, sviluppo industriale, avvenuto all’inizio del secolo, ne facesse in un futuro ormai prossimo un aspirante egemone in Europa orientale, ed un avversario troppo potente. Berlino incoraggio perciò gli Austriaci a cogliere l’occasione dell’attentato per “punire” i Serbi, popolo alleato e assai vicino ai Russi.

Con un ragionamento che si sente oggi ripetere a proposito dell’America e della Cina, si pensava allora a Berlino che, data come prima o poi inevitabile una guerra con San Pietroburgo, sarebbe comunque stato meglio farla subito, prima che la Russia fosse veramente “pronta”. Gli Austriaci, perciò, presentarono alla Serbia un ultimatum che non si poteva se non rifiutare, tanto più che Belgrado si sentiva forte della garanzia offertale dalla Russia, a sua volta appoggiata dalla Francia. E non appena la Serbia venne attaccata, la Russia mise le sue truppe in stato di allerta, e le ridispiegò in maniera significativa sul proprio territorio. Il che parve ai Tedeschi addirittura un casus belli, e quindi –  seguendo il catastrofico luogo comune secondo il quale la miglior difesa è l’attacco – dichiararono guerra tanto alla Russia quanto alla Francia.

Si trattava, per ogni osservatore razionale, di una scelta autolesionista, in quanto obbligava Berlino a condurre ana guerra su due fronti, uno dei quali era quello sul quale un secolo prima Napoleone Bonaparte, partito con quasi mezzo milione di uomini, si era ritrovato alla fine sconfitto e con si e no ventimila sopravvissuti. Ma sul quale lo Stato Maggiore tedesco pensava di poter scatenare con successo tutte le proprie forze, non appena sul suo fronte Occidentale fosse stata sconfitta la Francia. E a tal fine aveva messo a punto una strategia, il cosiddetto “piano Schlieffen, che consisteva nell’aggirare le difese francesi – le stesse che poi sarebbero diventate la linea Maginot – e conquistare la Francia in pochissimo tempo passando attraverso l’invasione del neutrale Belgio,

Visto ex post, questo piano mostra chiaramente il pieno disprezzo del Diritto Internazionale, ma appare anche estremamente lucido. In realtà creò invece una situazione fatale quanto inestricabile e confusa. Nemmeno gli statisti dell’epoca capirono cosa stesse accadendo, tant’è vero che ognuno di loro (tedeschi compresi) si sentiva attaccato e riteneva di combattere una guerra puramente difensiva!

Le nuove dispute su territorio e confini

Oggi, più di un secolo dopo la fine di quella terribile guerra, la situazione in Europa è purtroppo per taluni aspetti assai simile a quella di allora.  Proprio a partire dal 2014, centenario dello scoppio della prima guerra mondiale, l’antico “imperialismo territoriale” sembra infatti essere ritornato attuale, e in Europa si è preso di nuovo a combattere “per spostare confini”. E i circa 1500 kilometri che separano Sarajevo e Kiev, gli epicentri della vecchia e della nuova crisi, mostrano chiaramente perché sia oggi Mosca a sentirsi minacciata da un gruppo costituito ancora una volta di undici paesi – in buona parte gli stessi di un secolo fa – che la diplomazia, questa volta quella degli Stati Uniti, ha spinto a passare dall’ex-blocco sovietico ad un’alleanza anti-russa. E basta un’occhiata alla carta, anche senza tener conto dell’ex Germania Est e dell’Ucraina, per rendersi conto delle conseguenze.

Definire “assordante” il silenzio è un modo di dire che, negli ultimi anni, si è molto diffuso nel linguaggio dei giornali e dei ripetitori di luoghi comuni del nostro paese. È un’espressione abusata, ma è un ossimoro che descrive bene la voluta indifferenza con cui sono state trattate in Italia le informazioni sull’allargamento della NATO ad undici paesi che durante la “guerra fredda” erano satelliti o addirittura parte dell’Unione Sovietica, e che per settantant’anni hanno contribuito a mantenere la pace, mentre oggi alimentano in Russia vivi timori di guerra.

Questa indifferenza appare chiaramente una deliberata omissione da parte degli organi di informazione, una scelta quasi censoria che ha minimizzato persino le notizie sul fallimento dei recentissimi incontri tra le autorità russe da un lato, e dall’altro i rappresentanti dei ben tre dei volti con cui – per accrescere l’ambiguità – hanno scelto di presentarsi i paesi occidentali.

Sono così passate praticamente sotto silenzio persino le dichiarazioni del Ministro degli Esteri di un importante membro della NATO (CLICCA QUI), che ha constatato come ormai “da diverse settimane affrontiamo il rischio di una forte escalation nell’Europa orientale”; e addirittura la sua valutazione del “rischio di guerra”, che gli appare “oggi maggiore che mai negli ultimi 30 anni”. Ed è a causa di questo silenzio che appaiono estremamente notevoli l’anticonformismo e il coraggio di cui ha dato prova venerdì scorso, 16 gennaio 2022, una importante personalità accademica ed intellettuale: il Prof. Franco Cardini dell’Università di Firenze (CLICCA QUI).

Una voce fuori dal coro

Cardini non esita infatti a definite “una pretesa francamente al limite del paradossale” l’ammonimento che abbiamo senza sosta sentito avanzare nei confronti della Russia nelle ultime due o tre settimane: quella che il presidente Putin “non si permetta neppure di manovrare le sue forze in casa propria”. Lo studioso fiorentino, anzi, si espone ancora di più all’isolamento definendo “con eleganza” il modo in cui “la Russia ha risposto di aver già concluso le manovre militari ch’erano oggetto della mobilitazione interna guardata con tanto sospetto.”

Ma Cardini non si ferma qui. Egli sottolinea con grande chiarezza la serietà dei rischi derivanti dal fatto che “non stiamo assistendo a una partita di Risiko. Che i paesi euro-orientali di fresco aderenti alla Nato non abbiano ancora metabolizzato il loro rancore antirusso e che gli Usa se ne servano per le loro scelte diplomatiche e militari, non sarà cosa pulitissima però è comprensibile. Che altri Paesi, anch’essi aderenti storici della Nato, abbiano interesse ad assecondare i malumori ucraini o i meteorismi polacchi che gli americani alimentano in funzione antirussa. è già meno accettabile”.

Cardini sceglie anzi di rischiare l’impopolarità quando valuta come “un bel rospo da inghiottire” da parte russa un’eventuale “estensione delle coperture di missili a testata nucleare anche ai paesi baltici, ex appartenenti all’Urss adesso passati all’indipendenza e, con essa, alla Nato.” E rincara la dose definendo “il minino che avrebbe potuto dichiarare il portavoce di Putin” la di lui affermazione secondo la quale minaccia di sanzioni contro la Russia – peraltro già formulata da Biden – “è una misura oltre ogni limite, paragonabile alla rottura delle relazioni diplomatiche”; cioè l’ultimo avvertimento che in genere precede una guerra. E giudica invece la reazione di Putin “come al solito, fredda e misurata”.

Si tratta, nel caso di Cardini, solo di una voce fuori dal coro, e di una voce che difficilmente potrà suscitare un numero significativo di altrettanto espliciti consensi. Ma è una voce la cui dissonanza fa sorgere l’interrogativo se per caso non di assista ad un nuovo caso di generale sonnambulismo dei governi, e di impossibilità per i popoli, che vengono tenuti all’oscuro dei rischi che tutti essi corrono, di riuscire ad evitare una nuova marcia ad occhi chiusi verso la catastrofe.

Giuseppe Sacco

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