Dopo i ballottaggi che hanno dato ragione alla destra e scacco matto al PD, il clima politico si è ancor più avvelenato.
La polarizzazione si è appesantita più di quanto già non fosse ed ha assunto una intonazione rabbiosa. Si direbbe un livore sottaciuto sempre più a fatica, incline all’ invettiva, perfino irridente, dall’ una e dall’altra parte. Se le danno di santa ragione e la destra si comporta come se volesse infliggere il KO definitivo ad un avversario che, stretto all’ angolo, cerca fortunosamente di proteggersi almeno il viso.

Le vestali che, a suo tempo, hanno levato al cielo il loro dolente lamento contro quella pratica immonda che andava sotto il nome di “consociativismo” – esercizio non sempre nobilissimo, ma comunque ispirato ad un dialogo tra le parti che si riconoscevano una reciproca legittimazione – dovrebbero insorgere di fronte alla devastante condizione di arroccamento pregiudiziale e di incomunicabilità tra i due poli della destra e della sinistra. Arroccamento “necessario”, che sta, cioè, per forza, nell’ordine delle cose, dato che si è instaurata una logica nemico/amico, tale per cui la sopravvivenza dell’ uno è garantita solo dalla soppressione dell’ altro.

Si approfondisce nel Paese un solco di cui francamente non abbiamo bisogno. Anche tra i cultori dell’ una e dell’altra parte, osservatori e giornalisti stabilmente arruolati di qua o di là comincia a comparire, nei talk-show, una reciproca intolleranza che talvolta già cede ad un linguaggio, si potrebbe dire, di trattenuta violenza.

Si discute, in questi giorni, delle scelte della destra, ispirate ad un vero o presunto autoritarismo. Il quale, per la verità, almeno fin qui – lo deve riconoscere anche chi non ha nulla, ma esattamente nulla da condividere con la destra – non ha ancora dato prove palesi di aver invaso proditoriamente il campo delle regole costituzionali e democratiche.
Hanno ragione di sostenere che se si fossero spinti a tanto, ci avrebbe pensato Mattarella. Ciò non toglie che una certa “nuance” autoritaria sia inserita nel patrimonio genetico della nostra destra e di tutte le altre, per cui, in qualche modo, bisogna pur farci il conto. Senza cadere in colpevoli distrazioni.

Eppure, la sinistra deve evitare di recitare la parte del pastorello che, nella favola di Esopo, gridava: “al lupo, al lupo”.
Il punto di una possibile “revanche” autoritaria non va accantonata, anche perché potrebbe essere favorito dalla complessità oggi del “governare” e dalla conseguente rassegnata consegna al capo carismatico di turno.

Senonché, la questione è più’ sottile. E soprattutto in questa chiave di lettura può essere realistica e preoccupante.
I regimi autoritari o simili sono, quasi sempre, il punto di caduta e di accomodamento, da un lato della prevaricazione del potere, dall’altro dell’ accondiscendenza e dell’ ignavia di chi si è stancato di essere sé stesso. Ne consegue che la sinistra, anziché abbaiare alla luna, dovrebbe preoccuparsi di rianimare la passione per la libertà, la motivazione di una personale responsabilità, la voglia di essere protagonisti nel discorso pubblico. E questo passa dalla capacità di giocarsi su una visione e su un programma che ridiano sapore alla democrazia e ne riaccendano il gusto.

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