Le questioni che pone il nostro amico Guidi Guidi sulla credibilità, sostenibilità ed effettivo sviluppo del tentativo di formare un Governo Draghi che, alla luce delle indicazioni fornite dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dovrebbe andare avanti “senza alcuna qualificazione politica” ( CLICCA QUI ) troveranno una risposta in relazione alla capacità che l’ex Presidente della Bce sarà in grado di dimostrare nel compiere un’operazione che potremmo definire alla De Gasperi.
Perché siamo a questo punto di svolta? Perché Sergio Mattarella si è trovato a constatare, più di ogni altro, le irrimediabili conseguenze portate dalla fase di tramonto cui è giunto un intero sistema politico e istituzionale. E’ finita la Seconda repubblica. Ha avuto ragione chi, come Insieme, l’ha capito prima, molto in anticipo rispetto alla crisi del Governo Conte 2, e indicato la necessità di avviare un processo di trasformazione.
Come avrebbe detto Aldo Moro, si è giunti al punto di dover procedere ad una profonda opera di scomposizione per avviare una necessaria ricomposizione. Si deve, però, stare attenti ad evitare di suffragare l’idea che un Governo di tal fatta si riduca in una impossibile omologazione di visioni e progetti politici che sono, e resteranno, antitetici.
Si fa un gran parlare delle “mira” di Mario Draghi. Io credo che da uomo delle istituzioni, egli abbia accettato un incarico tanto delicato, e persino “pericoloso” per le eventuali sue supposte “mira”, per un senso di generosità che del resto egli può più di altri permettersi e che, nel caso portasse frutti positivi, gli darebbe il pieno riconoscimento di una statura di cui tutti sentiamo la mancanza da tempo nel nostro panorama pubblico.
Ma non sarà per niente facile. Mario Draghi è il primo ad esserne consapevole. Soprattutto, all’interno, a causa dell’ immiserirsi di una “cultura” politica, per le difficoltà prodotte dalla mutabilità dei paradigmi della finanza e dell’economia sempre più integrata tra le diverse aree del mondo, per il mutare dei processi internazionali che ampliano il numero delle variabili di quelle equazioni in cui sono avviluppati i singoli stati e le diverse dimensioni regionali in cui si sta articolando sempre più la geopolitica mondiale.
Ragionare oggi solo in termini domestici ci serve per quelle semplificazioni di cui abbiamo tanto bisogno, per vendere qualche copia di giornale in più, ma non aiuta a capire la portata dei problemi che il Presidente del consiglio, e quello della Repubblica, hanno realmente dinanzi. Però, i problemi domestici restano e si è dunque costretti a ragionare sulla cifra “politica” che il nuovo Governo deve assumere per marcare il senso e il peso del cambiamento.
Alcide De Gasperi, tra il ’44 e il ’48 del secolo scorso, in continuità ideale con quell'”intransigentismo” popolare che aveva trovato in Sturzo, Donati e Ferrari le espressioni più alte, riuscì in un’operazione delicata e difficile; l’unica in grado di creare un’area allargata in cui potessero coesistere una miriade di sensibilità, esperienze politiche, espressioni sociali, culturali e politiche rimaste nell’autoreferenzialità e nella incomunicabilità imposta da vent’anni di dittatura fascista; persino divise, se non ostili l’una verso l’altra. A De Gasperi non sfuggì che, anche in quel caso, c’era un’equazione da risolvere in gran parte dipendente dagli equilibri mondiali fissati da Yalta oltre che dall’uso di due bombe atomiche.
Quando fu necessario, lo statista dc fu fermo. Come accadde nei confronti del Re di Maggio poco intenzionato ad accettare il referendum dall’esito favorevole alla scelta repubblicana. Lieto che Palmiro Togliatti firmasse da Guardasigilli l’amnistia e che ordinasse lo scioglimento di quelle frange partigiane comuniste ancora illusoriamente protese verso l’idea di una rivoluzione mentre la stessa illusione stava portando alla guerra civile in Grecia. Al tempo stesso, De Gasperi fu intransigente contro i possibili rigurgiti neo fascisti contrastati dalla XII esima norma transitoria della Costituzione. Molto altro potremmo ricordare quale “alto” frutto del degasperismo, sapiente combinato di “intransigenza” ideale e cultura della coalizione.
Un combinato, che rivisto e riadattato ai nostri tempi, chiama Mario Draghi ad andare oltre quella figura di notaio su cui lo vorrebbero appiattire una certa pubblicistica, alcuni partiti e personaggi della politica che ancora non hanno capito la portata dei tempi che stiamo vivendo e , per dirla più terra terra, sono già “politicamente” morti, ma si ostinano a non rendersene conto.
Vi sono dunque due dimensioni in cui Mario Draghi può segnare una fase di passaggio tra una stagione finita e una nuova non ancora pienamente materializzata. Una è sicuramente quella internazionale. Europa e i caratteri della libertà e della democrazia occidentale non sono cose barattabili per raggiungere un equilibrio al ribasso in casa nostra.
La capacità di Draghi starà proprio in questo, in particolare per quanto riguarda la Lega, o parti di essa: portarla alla comprensione dell’incidenza delle dinamiche internazionale e, quindi, la necessità di uscire da un’ambiguità che riguarda i rapporti da sviluppare su nuove basi con Bruxelles e superare quelli che ci sono stati con Putin e con Trump. Ciò vale a maggior ragione quando, con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, sono destinati cambiare molti paradigmi che ispirano il più importante sistema democratico mondiale. Ma un’opera maieutica aiuterebbe anche una buona parte del Centrosinistra che non potrà continuare, come già fatto a suo tempo con Berlusconi, a definire facilmente la propria cifra esistenziale solo per il fatto di andare “contro” qualcuno, senza impegnarsi in quella che noi definiamo una “politica per” qualcosa.
La Lega è una galassia che Matteo Salvini tende a presentare come un tutt’uno per soddisfare i propri interessi personali. Così non è. Ce lo ha ripetutamente spiegato Domenico Galbiati ( CLICCA QUI ), in virtù della distinzione tra la dimensione politica “simbologica”, ridotta ad una serie di messaggi lanciati persino ad un livello subliminale, e la vera realtà del leghismo fatta da un fitto ed organico reticolo di presenze sul territorio, di amministratori locali, di una passione civica reale. Il tutto, magari, dirottato su versanti sovranisti e persino razzistici perché decisi a puntare più su di una gestione e su un’organizzazione immediata del consenso piuttosto che ad un’opera di acculturazione politica come quella che compì la Dc, a partire da De Gasperi, consentendo di portare larghe masse conservatrici ad accettare importanti azioni riformatrici. E’ questo che tradusse la felice espressione degasperiana della Dc “partito di centro che guarda a sinistra” senza che nessuno se ne scandalizzasse più di tanto.
Insieme ha espresso il proprio apprezzamento per il tentativo Draghi perché è partito non ideologico, per quanto fermo sul collegamento a quell’insieme di idealità e di pensiero da cui discendono la Costituzione e la Dottrina sociale della Chiesa. Perché è partito programmatico che sta alla valutazione delle cose e guarda al salto di qualità tra l’annuncio e il realizzato. Soprattutto, per tutto ciò che riguarda gli interventi sull’ingiustizia sociale, per uno sviluppo umano integrale, le garanzie per assicurare le adeguate condizioni di vita a tutti, per riaprire i giovani alla speranza nel futuro e consentire agli anziani di non guardare con malinconia a un passato che appare decisamente migliore del presente.
Mario Draghi ha indicato le poche cose essenziali cui intende porre mano, pur sapendo che solo quelle farebbero tremare i polsi ad ogni persona ragionevole. Sa che restano i partiti tra cui molti di essi non sanno di essere già trapassati… Sa che ci sono delle aree della politica su cui si deve intervenire. Magari restituendo al Parlamento la funzione sua propria, senza che ne venga espropriato dai vertici di partito e dagli equilibrismi precari da cui è dipesa la sopravvivenza di molti dei governi succedutisi dal 1994 ad oggi.
Possono essere ritrovati spazi di pulsione e partecipazione democratica anche all’interno di una politica asfittica com’è quella di oggi. Un ritrovamento che sarebbe più ampio e possibile se potesse partire dalla consapevolezza che la rigenerazione istituzionale non è fatto che riguardi e debba coinvolgere solo le forze politiche. Semmai è necessario allargare alle forze civili e sociali la partecipazione all’analisi, alla riflessione e alla proposta. A partire da quelle questioni storicamente irrisolte come sono la Giustizia, la Pubblica amministrazione, il Mezzogiorno e la Scuola finiti ad essere gestiti al ribasso e preoccupandosi delle tutela delle rendite di posizione.
Grande il cantiere da avviare attorno alla legge elettorale, cosa che significa aprirsi, finalmente, al domani. C’è bisogno di ridare voce a tutto il patrimonio civico e sociale fino ad oggi espulso dal gioco democratico, con le conseguenze che abbiamo tutti sotto gli occhi, in particolare, con il dilagare dei politici di professione e con il perpetuarsi di un diffuso astensionismo.
Mario Draghi non può certo soffocare la dialettica tra i partiti e, soprattutto, quella parlamentare. Bene farebbe a tenere fuori il Governo da molti dei temi sopra indicati, ma facendo in modo che la dialettica pubblica torni ad occuparsi delle cose “alte” da cui dipende il futuro di un Paese già troppo martoriato.
Lo sforzo per dare vita ad un Governo d’unità nazionale, se non vuole restare a livello di mozione degli affetti e limitarsi alla creazione di un’indistinta maggioranza parlamentare, comunque frammentata o nuovamente frammentabile nel giro di pochissimo tempo, dev’essere coerente con due presupposti:
consapevolezza che ciò che unisce non riesce a cancellare la coscienza di ciò che continua a distinguere e a dividere;
creare le condizioni perché si operi in modo che un nuovo quadro politico, del tutto originale e frutto delle dinamiche reali sociali sottostanti la politica, torni ad assicurare quella sostanza del gioco democratico rappresentato dalla dialettica tra le parti che, ci auguriamo, sia in grado di rigenerarsi.
Giancarlo Infante