Molti stigmatizzano la vita politica del nostro paese per il basso valore qualitativo che hanno il dibattito fra le forze politiche e conseguentemente l’azione politica. Prevalgono insulti personali e contradditori superficiali che ruotano attorno a cose che si hanno da fare (o che non si devono fare). Del tutto assente è il dibattito sui valori, alla luce dei quali vengono fatte le scelte politiche.

In assenza di questo dibattito, le proposte elettorali diventano semplice snocciolamento di cose da fare, che si pensa suonino bene alle orecchie dell’elettorato, ma quest’ultimo non è illuminato sulle ragioni di fondo, sui valori che sotto stanno, anzi, che sovra esistono. E questo è grave poiché l’autorità politica deve riconoscere, rispettare e promuovere i valori umani essenziali e deve lasciarsi guidare dalla legge morale; deve ispirarsi, nel suo operare, a valori morali, valori propri della comunità sociale, senza i quali anche la più perfetta delle democrazie fallisce. Infatti la democrazia è fondamentalmente un ordinamento e, come tale, è uno strumento, non un fine. Il suo carattere morale non è insito in sé, ma dipende dalla conformità alla legge morale cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare; dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve. La democrazia o è etica o non è niente.

Per fare ciò, i politici devono essere profondamente etici, nel senso, non solo che il loro comportamento sia da persona onesta, ma perché impostano la loro opera politica in modo, non di essere al potere per il potere, ma per condurre la pólis verso determinati obiettivi. In primis, l’azione politica è pienamente etica solo se il politico ha chiari obbiettivi da raggiungere. Poi sarà necessario agire in modo etico nel comportamento operativo, ma a monte ci dev’essere la scelta di una chiara rotta d’indirizzo della pólis: il piccolo cabotaggio senza meta non è etico.

In effetti la sana (etica) lotta politica consiste nel tentativo di condurre la pólis verso un determinato obbiettivo che risulti essere in contrasto con l’obbiettivo di una o più controparti. Non invece nella contrapposizione di gruppi che hanno obbiettivi simili e che si contrappongono solamente perché vogliono acquisire potere di governo, emarginando altri gruppi di potere. Questa sarebbe solamente una lotta di potere senza contenuti etici. Quindi è essenziale saper distinguere in modo chiaro gli obbiettivi, le “cose buone”, realizzando le quali migliora il benessere della comunità.

Non è che sia difficile sentire elencare obbiettivi da raggiungere: i programmi di governo dei vari partiti normalmente ne snocciolano decine e anche centinaia. Ad esempio, a livello di politica europea, trasformare o no l’Unione Europea in uno Stato unitario, che abbia un governo proprio, con sovranità fiscale e politiche unitarie nei campi dell’economia, della politica estera, della difesa e della sicurezza, del lavoro, dell’istruzione, della promozione dello sviluppo sostenibile ecc.; modello centralistico di Europa che continui a realizzare politiche economiche liberistiche di austerità calate dall’ “alto” oppure modello federalistico basato su un approccio di risoluzione dei problemi che faccia riferimento al ruolo dei corpi intermedi (il “basso” organizzato) et al.

In campo economico interno: crescita economica, stabilità dei prezzi, piena occupazione, equilibrio nella bilancia dei pagamenti con l’estero, diminuzione del deficit pubblico, diminuzione del debito pubblico, diminuzione del carico fiscale sulle imprese e/o sui lavoratori, aumento dei salari reali, equità nella distribuzione del reddito fra le persone, fra i diversi tipi di reddito, fra le diverse aree territoriali ecc. Ma i predetti obbiettivi sono in parte in contrasto fra di loro e non tutti sono veri obbiettivi finali, le “cose buone” da realizzare; alcuni possono essere semplicemente intermedi, che cessano di essere fattori positivi se sono in contrasto con gli obbiettivi finali.

Che le cose non siano sempre così evidenti, che ci sia grande confusione, lo si vede continuamente. Così se, per ridurre il debito pubblico, obbiettivo chiaramente intermedio, s’introducono misure restrittive che strangolano l’economia dal lato della domanda aggregata, creando crisi produttiva e disoccupazione, o comportano forti restringimenti sulla spesa pubblica per sanità, istruzione e politiche di welfare – obbiettivi questi finali, o per lo meno più prossimi ai finali – si va nella direzione che appare buona, ma ci si allontana dalle vere cose che contano. Se si riduce il debito pubblico per far abbassare il “rischio paese” e, con esso, i tassi d’interesse di mercato, al fine d’incentivare (forse) la domanda d’investimento e si fa questo attraverso “politiche di rigore” che sicuramente fanno ridurre la domanda aggregata, si prendono lucciole per lanterne. Se s’imposta una politica per la crescita, cercando di allungare il lato dell’offerta aggregata ma, allo stesso tempo, si riduce la domanda aggregata quando essa è l’elemento più basso fra le determinanti del PIL, si fa un buco nell’acqua; questo perché il livello del PIL è ancorato al valore più basso fra il  livello della domanda aggregata e il livello dell’offerta aggregata, per cui il PIL aumenta solo se aumenta il più basso fra i due livelli predetti, non se aumenta uno dei due, a caso. E altro ancora.

Or bene, come fare a distinguere gli obbiettivi finali da quelli intermedi, se non si hanno ben chiari i valori che ispirano questi obbiettivi, e per far questo non è sufficiente un generico riferimento al “bene comune”? Lo si fa avendo presente che obbiettivi finali sono quelli che contribuiscono ai fondamenti del bene comune; obbiettivi intermedi sono quelli che sono semplicemente funzionali rispetto agli obbiettivi finali, al bene comune.

Già, il “bene comune”: concetto sulla cui realizzazione tutti concordano semplicemente perché ognuno lo intende a modo suo, come sempre avviene quando un termine è largamente impiegato. È quindi fondamentale impostare un approfondimento stringente sul contenuto del “bene comune”: che le persone impegnate in politica mettano sul tappeto quale è il contenuto che danno al “bene comune”, così diffusamente e genericamente citato.

Questo non può emergere che presentando e confrontando i valori, venendo i gruppi a contrapporsi apertamente se i valori differiscono fra gruppo e gruppo. Ho detto che la sana lotta politica deve consistere nel confronto fra i valori dei contendenti, ma questo ovviamente non è possibile se le persone o gruppi di persone tengono i propri valori nel segreto del proprio pensiero personale, della propria famiglia, della propria comunità ristretta.

Specie oggi, la vita politica ha bisogno di valori da conoscere, da confrontare, da assimilare e allora non c’è il dovere/la responsabilità per ogni persona di operare apertamente – senza timore e con piena consapevolezza, a tutti i livelli, quindi anche a livello politico organizzato – affinché i valori in cui crede diventino i principi fondamentali della società, capaci di dare realmente completezza e felicità alla propria comunità e all’intera umanità?

Su questo, i cristiani non hanno nulla dire e da fare, alla luce dei valori cristiani?

La risposta a questa domanda non può ignorare che, negli ultimi tempi, nel nostro paese – e “Politica insieme” e il partito Insieme ne sono una chiara espressione – c’è un certo movimento di cristiani i quali ritengono che, in presenza della pochezza valoriale del confronto politico attuale, vi sia bisogno di una chiara presa di posizione e discesa in campo dei cristiani per far affermare, nell’agone politico, i valori della Dottrina sociale della Chiesa (DSC).

A questo punto, sorge però la questione se la predetta partecipazione, per essere efficace, debba essere unitaria o frammentata in diversi gruppi, ognuno dei quali cerchi di andare a fecondare di valori cristiani il pensiero e l’azione politica dei movimenti politici non espressamente d’ispirazione cristiana.

Lascio da parte la seconda opzione, anche perché – a partire dagli Anni Novanta del secolo scorso – l’esperienza ha messo ben in evidenza la scarsa efficacia, in termini di affermazione dei valori cristiani, della diaspora dei cristiani fra i diversi partiti operanti nel nostro paese.

La prima opzione porta sùbito ad affrontare quale debba essere la collocazione del partito dei cristiani all’interno dell’arena politica, e un certo qual séguito ha avuto l’idea che la collocazione debba essere “di centro”/”moderata”.

La prima idea non può essere solo una collocazione spaziale (la zona centrale dell’emiciclo parlamentare, fra Destra e Sinistra); ha da essere una collocazione valoriale fra quella della Destra e quella della Sinistra. A proposito, Norberto Bobbio ha isolato l’uguaglianza (la giustizia) come criterio di differenziazione fra la Sinistra e la Destra, attribuendo alla prima la scelta della presenza dell’uguaglianza e alla seconda la scelta dell’irrilevanza dell’uguaglianza e della precedenza, invece, della libertà che porti alla gerarchia delle posizioni, alla luce del merito individuale. Alessandro Pizzorno ha suggerito una diversa polarità: inclusione/esclusione, cioè accettazione dell’altro, del diverso, per la Sinistra, e irrilevanza del principio d’inclusione per la Destra, per la quale devono essere salvaguardate le situazioni di privilegio a favore dei ceti e dei gruppi dominanti, rifiutando conseguentemente anche l’inclusione dei soggetti di altre nazionalità, etnie, religioni ecc.

Ora, il Centro è l’uno l’altro oppure è interposto, media fra l’uno e l’altro, facendo proprio l’adagio in medio stat virtus? Alla fin fine, non è molto chiaro il panorama dei valori del Centro.

Due parole anche sui sedicenti moderati. La moderazione è una modalità di comportamento, non un contenuto di natura valoriale: indica la scelta di velocità, non di direzione di rotta. I moderati normalmente sono attenti osservatori della realtà per saper cogliere i bisogni, le necessità degli elettori, ma nel dare le loro risposte politiche non dovrebbero guardare al ritorno atteso in termini di voti elettorali, bensì in termini di benefici per la popolazione, alla luce della loro visione di ciò che è bene e ciò che non lo è (giudizio etico) e su questi valori chiedano il consenso elettorale. Il semplice termine “moderato” non è sufficiente per indicare la strada che imboccheranno sul piano operativo; occorrerebbe pertanto esplicitare questa via, definendosi “liberali moderati” o “socialisti moderati” o “cristiani moderati”…

“Cristiani moderati”, appunto, ma quali sono i valori che dovrebbero guidare l’azione politica dei cristiani, che sarà tanto più efficace quanto più i cristiani sapranno compattarsi anziché suddividersi in tanti rivoli scarsamente rilevanti in termini di efficacia operativa? Per i cattolici che qui interessano – che non sono necessariamente i fedeli praticanti le cerimonie religiose e i sacramenti («non chiunque dice “Signore, Signore” entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» – Matteo, 7, 21) – la risposta non può essere trovata che nella DSC, la quale indica i suoi principi fondanti nella centralità della persona e nella fraternità – che, fondendosi, dànno dignità completa alla persona – i quali costituiscono l’unico modo attraverso il quale si può realizzare lo sviluppo umano integrale (tutti gli aspetti della persona e tutte le persone) e che danno origine a sei cardini: centralità e dignità della persona, giustizia, solidarietà, sussidiarietà, sostenibilità dell’ambiente naturale, bene comune.

Si tratta ovviamente non di etichette bensì, secondo l’approccio proprio della DSC, una dottrina che discende sì dalla rivelazione delle Sacre Scritture, ma si esplicita attraverso un ritorno di tipo induttivo, poiché essa dev’essere calata nella vita civile, politica, economica, sociale per essere viva, per camminare insieme a tutta l’umanità lungo la strada della storia, della salvezza.

Per non fermarci al limite del concetto teorico, ma per calare questo nella realtà della vita comune, è doveroso, per lo meno, dare un’esemplificazione del contenuto di ciascun cardine predetto.

Centralità e dignità della persona. Si declina con il rispetto della vita umana (dal concepimento alla sua fine naturale), della famiglia (comunità necessaria per lo sviluppo della persona, cellula primaria della società, da sostenere e da distinguere dalle altre forme di unioni), dell’educazione e del lavoro, che rivestono entrambi primaria importanza per la realizzazione dell’uomo e della donna e, per questo, occorre che essi siano sempre organizzati nel pieno rispetto della dignità della persona e al servizio del bene comune. In particolare, per il lavoro, esso deve essere libero, dignitoso, creativo, partecipativo, solidale e la sua regolamentazione dev’essere incentrata su contratti di lavoro collettivi, che sono in grado di annullare le differenze di potere contrattuali delle parti; capaci di sostituire la giustizia e la libertà al posto della lotta di classe.

Giustizia. In campo economico, si declina, innanzitutto nell’assenza di povertà assoluta e nella costruzione di un assetto istituzionale che regolamenti tutti i mercati in modo che sia eliminato ogni squilibrio di potere contrattuale fra le parti. In questo àmbito, un ruolo importante è svolto dalla politica fiscale (entrate e spese pubbliche) che segua l’intento di tipo redistributivo rispetto ai risultati dei mercati. Esemplificando, in sistema impositivo di tipo progressivo e non un’imposizione piatta (una sola aliquota d’imposizione fiscale).

Solidarietà. Principio di organizzazione sociale che mira a consentire ai diseguali di diventare eguali, per via della loro uguale dignità; principio d’ordine sociale e, allo stesso tempo, virtù morale. È il fondamento della concordia sociale, chiamata a favorire l’incontro fraterno e l’aiuto vicendevole, sia all’interno di ogni comunità, di qualsiasi dimensione, sia nelle relazioni internazionali; ciò che vivifica lo sviluppo economico e sociale. Occorre però distinguere la solidarietà attiva da quella passiva. La seconda cerca di ridurre o eliminare le situazioni di sofferenza, ma non interviene sulle cause di queste situazioni; la prima cerca, invece, di ridurre o di eliminare le cause, permettendo alle persone di alzarsi o di rialzarsi per camminare con le proprie gambe. Il reddito d’inclusione è misura che appartiene al novero della solidarietà attiva, poiché sostiene il reddito di chi è coinvolto in un processo d’inclusione economica e sociale; il reddito di cittadinanza puro è una misura di solidarietà meramente passiva, poiché viene erogato indipendentemente dalla presenza di un processo d’inclusione.

La solidarietà è espressione concreta del principio di gratuità, della logica del dono, che discendono dal principio di fraternità. Come ha scritto Papa Benedetto XVI: «La vita economica ha senz’altro bisogno del contratto, per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti. Ma ha altresì bisogno di leggi giuste e di forme di redistribuzione guidate dalla politica e, inoltre, di opere che rechino impresso lo spirito del dono. L’economia globalizzata sembra privilegiare la prima logica, quella dello scambio contrattuale ma, direttamente o indirettamente, dimostra di aver bisogno anche delle altre due; la logica politica e la logica del dono senza contropartita» (Caritas in Veritate, 2009, § 37). Quindi il mercato, per ben funzionare, ha bisogno d’incorporare la logica dello scambio di equivalenti, il principio redistributivo e il principio di reciprocità.

Secondo diversi economisti (Luigino Bruni e Stefano Zamagni, ad esempio), il modello del’“economia civile” riesce s declinare tutti e tre i principi predetti: non nega il mercato, non elimina l’azione redistributrice dello Stato, ma integra questi due con la presenza di reciprocità, di gratuità, espressioni (più o meno ampie) di relazionalità. E non si tratta di figure create dalla fantasia. Giuseppe Toniolo, a fine Ottocento, auspicava il ritorno al modello delle corporazioni di arti e mestieri del Basso Medioevo presenti in Italia Centrale e operò profondamente, sul piano teorico così come sul piano della pratica attuazione, per lo sviluppo del modello cooperativo. Oggi, appunto, il settore delle cooperative di produzione e lavoro, delle cooperative di consumatori, delle banche di credito cooperativo, l’economia di comunione, il commercio equo e solidale sono espressioni di libero mercato che incorporano elementi di gratuità e di reciprocità.

Ma c’è anche il modello dell’economia di produzione di reciprocità, nella quale non si applica né la “reciprocità debole”, propria del mercato, né la “reciprocità-amicizia” o la “reciprocità incondizionale”, proprie dell’economia civile. È la “reciprocità produttiva”, che consiste nel concorso a produrre i beni in un contesto di scambio non anonimo, ma personalizzato e non separabile dalle persone che lo attuano: il soggetto che beneficerà del prodotto concorre a realizzare il prodotto stesso; il che, da un lato, non può che elevare la qualità del prodotto e, dall’altro lato, dà luogo alla creazione di rilevanti beni relazionali. Creatore di beni di elevata qualità intrinseca; modello particolarmente adatto ad essere adottato nella produzione di servizi (e i servizi, nel Mondo occidentale, grosso modo, producono il 70 per cento del valore aggiunto interno e danno lavoro a più del 75 per cento degli occupati).

Sussidiarietà. Principio normalmente inteso come una modalità di relazione tra istituzioni pubbliche, gruppi sociali e persone, per cui lo Stato deve riconoscere, sostenere e promuovere le iniziative sociali che nascono dal basso, nella società, in risposta ai bisogni collettivi. Sussidiarietà significa porre al centro dell’azione sociale, economica e politica la persona, soggetto umano caratterizzato da una libertà capace di scegliere, di avere un’attitudine alla responsabilità, di rapportarsi con le altre persone, di operare per il bene comune, più rilevante di ogni interesse particolare. Significa voler e saper coniugare la condivisione di responsabilità con il principio di solidarietà cooperativa, riconoscendo e ribadendo che ogni cittadino deve affrontare, in prima persona, responsabilità d’ordine sociale. Un’applicazione può essere individuata nel senso che l’affiancamento, al sistema dell’economia di mercato capitalistica, dell’intervento dello Stato volto alla realizzazione dell’equità distributiva, avvenga non attraverso il Welfare State burocratizzato e accentrato, ma la Welfare Community o Society, nella quale si realizzi un ampio coinvolgimento del Terzo settore, non come mero esecutore di programmi statali, ma come co-programmatore (con ampia delega alla realizzazione) delle politiche di welfare, con il contributo finanziario, la promozione, l’indirizzo e il controllo dello Stato, secondo il principio di sussidiarietà.

Sostenibilità dell’ambiente naturale. Oggi significa, da un lato, eliminare quei comportamenti umani che risultano avere rilevanti effetti negativi per la vita del creato (cambiamenti climatici, ad esempio) e impostare le attività economiche produttive e l’utilizzo dei beni prodotti secondo il principio dell’“economia circolare”, per cui nulla di quanto è prodotto viene disperso nell’ambiente poiché tutto è riutilizzato.

Bene comune. È la sintesi degli altri cardini. Dev’essere determinato con riferimento alla natura umana integrale; non si limita ai soli aspetti materiali, economici e sociali; ha un respiro ben più ampio: certamente comprende tutte le condizioni di vita materiale che si richiedono per il perfezionamento della vita umana ma, nello stesso tempo, non può fare a meno di aprirsi ad altri beni altrettanto essenziali per una vita veramente “umana”, quali sono l’educazione, la cultura, l’arte nelle sue varie espressioni, la contemplazione, la dimensione spirituale e religiosa. Si può dire che una politica, la quale tagliasse le ali agli spazi del trascendente nel concreto della convivenza sociale, priverebbe il bene comune della sua stessa anima. Il bene comune dipende dalla qualità della vita umana (negli aspetti materiali, morali e spirituali; quindi non tanto la “qualità della vita” interpretata come bellezza e godibilità della vita fisica, quanto piuttosto nelle dimensioni più profonde – spirituali, religiose e relazionali – dell’esistenza), più che dalla quantità delle disponibilità materiali, e questo non solo a livello di comunità locale o nazionale, ma anche a livello planetario.

Fondamento filosofico del bene comune è che la persona umana non è un’isola: «L’uomo nasce per vivere con gli altri» – afferma Aristotele – sia nel senso che ha una propensione innata alla compagnia con i suoi simili (una propensione affettiva che fa dell’uomo un animale sociale e politico e che genera la figura ideologica del “genere umano”, al quale ognuno sente di appartenere ed è coinvolto emotivamente, fino al limite di sentirsi sminuito se muore una persona o se questa soffre) sia nel senso di avvertire l’utilità che trae dallo stare con gli altri. Più precisamente, anche se, sul piano biologico, l’individuo – forse la famiglia – precede la società, ciò non significa che, sul piano storico-antropologico, sia asociale, ché egli, nella norma, ha bisogno della società per realizzare i suoi obiettivi; persegue molte delle sue aspirazioni in un contesto sociale, comunicando, cooperando, scambiando e sviluppando un ampio sistema di relazioni direttamente e indirettamente personali.

È invalso affermare che la realizzazione del bene comune è precipuo compito dello Stato, ma non solo. Per la DSC tutte le persone, singolarmente o aggregate in gruppi, possono e debbono concorrere, con le proprie attitudini e con le proprie attività, al bene comune della comunità cui appartengono, e quindi anche al bene comune mondiale: la propria comunità espansa al massimo, al livello planetario.

Daniele Ciravegna

 

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