Molte delle reazioni all’intervento di Mario Draghi tenuto al Meeting hanno finito per trasportare un discorso di spessore e di lunga prospettiva all’interno della molto più modesta discussione politica italiana i cui attori principali non perdono mai il vizio della banalizzazione e della strumentalizzazione.

Non c’è proprio da credere che Mario Draghi metta nel proprio orizzonte la prospettiva di sostituire Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Egli ha tanta di quella esperienza per capire che gli attuali equilibri parlamentari non consentono molti voli pindarici e, come dimostra lo scivolone di Salvini dello scorso anno, le maggioranze non si cambiano se non a seguito di passaggi che richiedono i tempi giusti e le adeguate scansioni.

La nostra consonanza con il discorso di Draghi sta nel fatto che egli ha alzato lo sguardo e il tiro oltre l’emergenza del Coronavirus e oltre l’ordinarietà dell’azione politica. Quell’ordinarietà che, protraendosi da circa 25 anni, impedisce quel vero e proprio salto di qualità che il Paese dovrebbe essere chiamato a fare. Noi abbiamo definito tutto ciò “trasformazione” radicale e lo abbiamo scritto in tempi non sospetti nel nostro Manifesto ( CLICCA QUI ). Molto prima che si sapesse del Covid- 19 e se ne vedessero le drammatiche conseguenze sanitarie, economiche ed esistenziali.

Parlare di trasformazione, credere che si possa essere in grado di perseguirla, significa parlare, come ha fatto Mario Draghi a Rimini di speranza: “La società nel suo complesso – ha detto l’ex Presidente della Bce –  non può accettare un mondo senza speranza; ma deve, raccolte tutte le proprie energie, e ritrovato un comune sentire, cercare la strada della ricostruzione”. Una ricostruzione che deve inevitabilmente passare da “una crescita che rispetti l’ambiente e che non umili la persona”.

Inevitabile condividere la sua riflessione che questa speranza, in particolare per ciò che riguarda i giovani ,non possa essere affidata ai pur necessari sussidi. Essi servono  “a sopravvivere, a ripartire”, ma alle nuove generazioni “ bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri”. Dobbiamo, così, sempre essere consapevoli che “privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”.

Con la speranza devono essere recuperati e ristabiliti i principi di riferimento e la responsabilità che riguardano “tutta la società” perché le fondazioni del futuro “non poggino sulla sabbia”. Si tratta, insomma, di una “ affermazione collettiva dei valori che ci tengono insieme”.

E’ evidente che Mario Draghi parli principalmente di economia e di finanza, i campi cui ha dedicato l’intera sua vita, in un progressivo impegno che ha assunto via via responsabilità sempre più ampie e in una crescente dimensione internazionale. Il suo ragionamento, però, va oltre l’economicismo per riguardare le persone, quali esse noi siamo realmente nella nostra quotidianità, e la politica, quella intesa con la “P” maiuscola, non certo quella delle beghe di villaggio.

In questo senso viene un’altra piena condivisione del suo pensiero, là dove egli esprime la necessità che si accetti l’inevitabilità del cambiamento “con realismo” e adattarvi, così, “i nostri comportamenti e le nostre politiche”. La conclusione di questa parte del ragionamento è ovvia: è il ” momento della saggezza nella scelta del futuro che vogliamo costruire”.

E’ ciò che non riguarda solo gli italiani, ma che noi dobbiamo approfondire per capire in che modo si possa partecipare a quella che Draghi chiama una correzione di “assetti” che riguardano il mondo, in generale, e l’Europa, in particolare, sulla base della constatazione che il populismo, al cui svilupparsi nella dimensione europea Mario Draghi ha assistito dall’alto del grattacielo in cui, a Francoforte, ha sede la Bce, ha utilizzato il mancato riequilibrio di un intero sistema, mondiale ed europeo, per trasformarlo in “una protesta contro tutto l’ordine esistente”.

Draghi esprime, andando ben oltre quello che da molti è stato valutato come un intervento nella cronaca politica italiana, una necessità strategica cui dobbiamo pensare già oggi, mentre il processo squilibrante portato dalla pandemia aggrava le disfunzioni già proprie di un sistema che non funzionava più neppure prima. Importante, in tal senso, il riferimento a chi nel pieno della Seconda Guerra mondiale si preoccupava del dopo, come fu il caso di J.M. Keynes per l’economia e di De Gasperi per la democrazia italiana. Così come è importante registrare un altro passaggio di Draghi: “È probabile che le nostre regole europee non vengano riattivate per molto tempo e certamente non lo saranno nella loro forma attuale. La ricerca di un senso di direzione richiede che una riflessione sul loro futuro inizi subito”. Ben altro che preoccuparsi dei certo limitati problemi che riguardano gli equilibri interni italiani.

Il riferimento a Keynes non è di maniera, visto che Draghi ci dice che il debito che si sta accumulando sarà sostenibile “se utilizzato a fini produttivi ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc. se è cioè “debito buono”. Così nel suo ragionamento il problema non è quello astratto del debito pubblico, questione che ha dominato gli ultimi anni e che ha portato Draghi a superare, non appena giunse a Francoforte, le resistenze del mondo liberistico e conservatore del nord dell’Europa, bensì della “percezione della qualità del debito contratto” in termini di sviluppo e di conseguente positivi” effetti sull’occupazione, l’investimento e i consumi”.

Non tutto sarà perduto, ecco il messaggio di Draghi. Pienamente da condividere se le politiche economiche da avviare saranno sostenibili “per dare sicurezza di reddito specialmente ai più poveri, per rafforzare una coesione sociale resa fragile dall’esperienza della pandemia e dalle difficoltà che l’uscita dalla recessione comporterà nei mesi a venire, per costruire un futuro di cui le nostre società oggi intravedono i contorni”.

Giancarlo Infante

About Author