“La Forza diverrà Diritto, o meglio, il diritto e anche il torto, e in mezzo alla loro contesa senza fine, siederà la Giustizia, e non si saprà più chi è l’uno e chi è l’altro, e la Giustizia perderà il suo nome . poi ogni cosa si risolverà in potere, il potere in volontà, la volontà in desiderio , e il desiderio, lupo universale, spalleggiato doppiamente da volontà e potere, fatalmente farà dell’universo la sua preda, fino a divorare se stesso” William Shakespeare, Troilo e Cressida, Atto I, Scena 3
La straordinaria intuizione shakespeariana di una catastrofe antropologica evidenziata in questa sorta di visione-profezia ( tratta dalle amare riflessioni di Ulisse sull’anarchia che regna nel campo dei Greci all’assedio di Troia, una guerra che non sembra finire mai) sembra illuminare perfettamente il pericolo inedito che oggi si va delineando in Occidente in seguito alla combinazione tra il potere nichilistico trumpiano che annuncia al mondo, nel quadro di una illimitata “volontà di dominio”, anche una disperata “guerra dei dazi”, e l’orientamento culturale pan-bellicista che sta emergendo, da un lato dalla difficile uscita dal conflitto ucraino, dall’altro, dal perdurare senza limiti dei massacri israeliani impuniti ed impunibili di Gaza.
Il rischio di una “catastrofe antropologica”, legata a questo scambio disinvolto tra diritto e forza, ed al potere che divora se stesso, si lega, mi pare, anche alla difficoltà o inattuabilità di forme accettabili di PACE. Vorrei perciò partire da una riflessione sulla PACE “suggerita” dalla Piazza “europeista” del 15 marzo. Proprio in quella manifestazione è emersa una difficoltà, una aporia ben sottolineata in un testo di uno degli “europeisti entusiasti” come Ezio Mauro. Ha scritto Ezio Mauro. ( “In quella piazza una promessa di libertà e democrazia”, p. 12.La Repubblica 16 marzo 2025):
“ Tutti ricordiamo all’epoca dei conflitti in Iraq e nei Balcani la discussione e la polemica sul concetto di “guerra giusta” tra Norberto Bobbio e i suoi allievi. La novità oggi è che a dividerci è il concetto di pace, mentre in astratto dovrebbe essere il più ecumenico, universale, unanime, appunto perché è un assoluto”.
E’ verissimo. Ezio Mauro ha messo il dito nella piaga. Oggi ci divide la pace più che la guerra. Le piazze “europeiste” proprio sull’idea di pace si dividono. Ma perché ci divide la pace ? Io credo per motivi un po’ diversi ( e un po’ più inquietanti) rispetto a quelli individuati da Ezio Mauro nel testo citato. La distinzione non è ,a mio avviso, semplicemente tra una PACE fondata sul rispetto delle ragioni del diritto e la PACE fondata sulla resa a discrezione a chi possiede il potere della forza.
Chi davvero, tra i pacifisti veri, può decentemente sostenere una “resa a discrezione”? O chi può concepire seriamente anche un PACIFISMO da comunità hippy che ignora la necessità di fermare la forza e l’aggressione? Chi vorrebbe davvero “amnistiare” la guerra e gli aggressori? E d’altra parte perché è così difficile una PACE fondata sul DIRITTO e dovremmo contentarci delle iniziative di “pace” un po’ megalomani e un po’ semplicistiche di Trump, caratterizzate dalla “diplomazia del pasticcino” ?
Si sostiene, da parte delle istituzioni UE, che vi sia una unica via per la PACE, la PACE attraverso la FORZA e solo così si possa ripristinare il diritto. Certo una prospettiva possibile, benché problematica. Ovviamente la FORZA deve coincidere con il DIRITTO, con la parte che difende la giustizia e quindi con le ragioni dell’ aggredito, non con quelle dell’ aggressore. Come assicurare questa “coincidenza”, come garantire forza adeguata a ciò che è diritto? Solo fornendo sempre più armi alla parte aggredita? E se questo non basta? E’ questa una prima difficoltà di chi considera le relazioni internazionali attraverso l’analogia relazioni tra le persone/ relazioni tra gli Stati. Entro gli Stati esiste però una forza al servizio del diritto, una polizia che assicura la tutela dell’aggredito consegnando alla giustizia l’aggressore. Ma così non avviene nelle relazioni internazionali.
E’ questo della FORZA in soccorso del DIRITTO peraltro uno schema rassicurante, quello che tutti abbiamo in mente pensando al secondo conflitto mondiale, cioè all’ultimo grande conflitto presente nella memoria collettiva, secondo il cui modello continuiamo a pensare per forza di inerzia. Che cos’ altro poteva fermare la macchina da guerra e da massacro hitleriana in piena attività se non una vittoria totale con una resa incondizionata? La seconda guerra mondiale è stata però un conflitto anomalo, una “guerra totale” innescata da una ideologia che non conosceva mediazioni giuridiche o politiche e che implicava il coinvolgimento di tutta la società, anche di quella parte di società cui non spetterebbe alcun obbligo di combattere, ovvero del grande fenomeno delle “Resistenze” europee. Una PACE attraverso la FORZA nell’ Europa sotto il tallone hitleriano era certamente l’unica strada praticabile e possibile.
Non sempre però la PACE, anche in epoca contemporanea, è stata conseguita o ( ciò che più conta) era conseguibile per questa strada. E’ il caso della conclusione della GRANDE GUERRA 1914-18. Qui alla pace si era arrivati non attraverso la forza e cioè attraverso la vittoria militare di una parte sull’altra, ma attraverso l’ implosione interna dei grandi imperi, prima quello russo, poi quello tedesco e quello austro-ungarico. Non vi furono sconfitte decisive in grandi battaglie campali, soprattutto per la Germania, e non fu certo Vittorio Veneto a decidere la sorte del conflitto. Decisivo fu piuttosto l’esaurimento del cosiddetto “fronte interno”, il disfacimento sociale e istituzionale, soprattutto dei grandi imperi, che chiudeva la guerra tra le nazioni lasciando dietro di sé elementi di guerra civile, dopo aver spinto nell’abisso dello sconvolgimento sociale l’ex impero zarista. Alla PACE si arrivò con l’implosione e l’eclisse dell’ intera Europa, non più in grado di combattere.
Il primo concettosi PACE: PAX ovvero la pace EX POST
Ma cosa è davvero la PACE? Il primo significato di PACE è quello che abbiamo appreso dai manuali di storia, dove si parla di PACE unicamente in relazione ai trattati, di Parigi, di Versailles, di Vienna e via dicendo. Entro l’italiano il termine arriva infatti del latino giuridico di PACE(M) attestato sin dal XIII secolo e collegato alla radice indoeuropea “pa(n)k”, “fissare”, “stabilire”, per indicare un accordo che segue un conflitto guerreggiato e comunque designa l’assenza di guerra tra due entità statuali.
La pace è il frutto di un accordo, è dunque essenzialmente una CONDIZIONE SANCITA DA UN TRATTATO, tra entità sovrane che pongono fine ad un conflitto. Il fatto che sia il perdente a chiedere la pace (pacem petere) e il vincitore a concederla (pacem dare) implica che la disponibilità dell’accordo e della situazione di pace è nelle mani del più forte.
La pace non è però solo questione di forza. Come la guerra che l’ha preceduta ogni volta, essa si lega anche all’idea di diritto che, già per gli antichi romani interviene come jus in bello a segnare i confini della forza nello stesso atto di guerra. L’assedio ad esempio è notoriamente vincolato a norme precise, così come lo stupro, usato dall’antichità come arma di guerra, è delimitato e “regolato” ( per così dire) sin dalle pagine del Deuteronomio.
Anche se la guerra non è sempre bellum iustum , esso è però di solito solo extrema ratio per ristabilire un diritto o una pretesa che si ritiene violata. Solo in casi estremi la PACE è l’annientamento totale di una delle due parti in causa secondo il noto passo dell’ Agricola di di Tacito: ubi solitudinem faciunt pacem appellant ( fanno un deserto e lo chiamano pace, il caso di Gaza sarebbe un esempio perfetto ). Il predominio assoluto di un regno della forza che costituisce un mondo a sé dotato di sue proprie leggi, costituisce dunque generalmente un caso estremo
Questa PAX romana è oggi piuttosto problematica da raggiungere qualsiasi sia la via da percorrere. Oggi fortunatamente non abbiamo davanti a noi una “guerra totale” promossa da una visione ideologica ben dichiarata e che non accetta compromessi. Abbiamo però a che fare, in tutti i casi, con una “guerra ibrida”, secondo la definizione diffusa ed accettata, ma che forse più esattamente potremmo definire come guerra liquida, guerra globale e al tempo stesso tecnologica.
Nei due decenni del XXI secolo e specialmente dopo il 2022 si è generalizzata l’idea e la pratica, accanto a guerre “tradizionali” anche di una guerra non dichiarata, non combattuta da eserciti regolari,e neppure combattuta con strumenti militari tipici. Una guerra difficilmente localizzabile nelle dimensioni spaziali e temporali , e persino nei partecipanti che possono limitarsi a fornire le più diverse forme di aiuto, pur essendo determinanti, e quindi sempre meno compatibile coi vincoli e le limitazioni giuridiche tradizionali, ivi incluse quelle di una Corte di Giustizia Internazionale. A questa guerra è sempre più difficile collegare una teoria della “guerra giusta” e limitata dal diritto. E’ subentrata invece una teoria diversa quella di una “guerra necessaria”, indispensabile ed inevitabile.
Che la guerra sia “necessaria” o “inevitabile” è una assunzione un po’ anomala del ragionamento umano, che produce un giudizio di inevitabilità ex ante e non ex post – guerra necessaria perché ad un tempo indispensabile ed inevitabile come se fosse un giudizio prospettico e non retrospettivo, fondato dunque o su deduzioni astratte legate a presunte leggi della realtà sociale o su pregiudizi dogmatici. Se qualcosa è inevitabile, come l’arrivo di un uragano, molto difficile sarà ogni discussione, parlamentare o non parlamentare, sulle possibilità di evitarlo. Sarà superfluo o inutile “dichiarare” uno stato di guerra. Basterà riconoscerlo, senza discussione alcuna.
In questo modo la guerra, come un tempo carestie ed epidemie, ed oggi anche crisi climatiche, emergenze migratorie, disastri tecnologici, disastri alimentari, o energetici, o mediatici finisce per apparire un fenomeno ordinario, possibile ed anzi sempre probabile nella realtà quotidiana, che è quella di una società a rischi crescenti. E’ uno dei tanti rischi che sono ritenuti ormai sostanza della vita ordinaria, per cui un Commissario UE ha apprestato un grottesco “kit di sopravvivenza”.
Si tratta di una realtà però drammatica. E’la realtà definita, con termine inglese ampiamente usato nei documenti UE, come weaponisation , vale a dire “bellicizzazione” della vita sociale attraverso la trasformazione in armi di tecnologie ed attività umane soggette a competizione ( cioè tendenzialmente quasi tutte quelle che ci mettono in connessione).
Tutto quanto ci mette in connessione- compreso cellulare o smartphone- ci mette anche in competizione e quindi ci mette sempre in una condizione potenziale di rivalità, competizione e guerra.
La guerra non è più un fatto umano o naturale come si credeva un tempo, ma soprattutto un fatto tecnologico. Tutto è dunque potenzialmente strumento di guerra, dalle “terre rare” dell’ Ucraina o di altri paesi, alle reti informatiche, ai cellulari, alle riserve alimentari, alle risorse energetiche, alle risorse culturali, ai flussi commerciali ( guerra dei dazi) alla informazione ( guerra delle fake-news), alle risorse finanziarie ed economiche ( sanzioni come arma di guerra, non più solo di deterrenza) , alle retri satellitari, sino alla masse umane di migranti considerate da taluni “armi” lanciate contro uno od un altro Stato.
E’ evidente che si tratta non di una dimensione oggettiva, concernente dei fatti concreti, ma di una dimensione culturale entro cui siamo immersi, una ideologia tecnocratica ( la techne è sempre potere e quindi forza) che universalizza competizione e diffidenza e ambizione di potere ( competition diffidence and glory, i fondamenti della guerra secondo Hobbes) come base delle relazioni internazionali e anche delle relazioni interne tra i cittadini degli stati.
Finisce così per sparire ogni soluzione di continuità tra pace e guerra, e diviene problematica ogni PACE che sia intesa come patto o accordo per l’ eliminazione della fonte di conflitto. Il conflitto è infatti destinato a permanere, magari mutandosi o trasferendosi ad altro. La pace diviene una TREGUA tra due guerre o una pace impossibile.
Il secondo concetto di PACE: il FOEDUS ovvero la pace EX ANTE
Resta allora l’altro concetto di PACE elaborato dai Romani e ripreso in epoca moderna dall’ Illuminismo e dalla rivoluzione americana, nonché dal federalismo europeista. Una pace costruita in modo autonomo, non ricavata per negazione dal concetto di guerra, un concetto affine peraltro al concetto escatologico, ebraico e cristiano di shalom, il che spiega il contributo essenziale del cristianesimo alla sua costruzione, soprattutto a partire dal XX secolo.
E’ la PACE, definita dal termine FOEDUS, inteso come alleanza inclusiva, come costruzione ex ante della relazione a prescindere da eventuali conflitti precedenti. Nell’esperienza degli antichi Romani anche i vinti in fatti si includono nel foedus sia pure in condizioni differenziate, , cosa che Sparta ed Atene non fecero mai, portando al disastro la Grecia classica, che tentò anche essa di costruire la propria unità, ma senza mai impiegare il concetto e la sostanza del foedus. Gli “altri” per i Greci erano inferiori in tutto, per i Romani no, erano inferiori solo nel mondo del potere e del diritto.
Sentirsi comunità politica prima e comunità universale poi ecco il segreto dei Romani, che continuarono a preservare anche nella fase imperiale e decadente. Noi abbiamo invece lasciato sbriciolare la comunità nella nostra società mediatica , siamo divenuti agglomerati di individui separati spazialmente e connessi mediaticamente, per cui l distanza tra realtà e finzione,vero e falso non esiste più.
Rispetto alla PAX classica, il federalismo è un modo di ragionare rovesciato, si ragiona a partire dalla pace, non più dalla parte della guerra. Cosa è infatti un FOEDUS? E’, in politica internazionale, patto,alleanza, lega, unione inclusiva. E’ l ’operazione con cui si stabilisce un accordo permanente di cooperazione tra soggetti diversi che si sentono parte di una medesima comunità. Così si è allargata la Comunità Economica Europea,così si è allargata anche l’ UE per accessione libera di Stati diversi.
Se vogliamo dirla tutta è una PACE PREVENTIVA , una concordia ordinata, fondata sulla FIDES, sulla fiducia e sulla lealtà che si attende in cambio, sulla possibilità di conciliare interessi diversi che non si ritengono conflittuali, ma compatibili. Nella visione dei padri federalisti americani che elaborarono un nuovo tipo di costruzione statale il federalismo era un metodo di garantire una pace interna fondata sul compromesso tra interessi diversi, la cui varietà e il cui pluralismo, lungi dal generare conflitto, serviva a costruire una democrazia in cui le maggioranze erano costruzioni deliberative e non espressioni immediate ed estemporanea- non mediate da deliberazione razionale- di interessi omogenei, “espressioni della pancia del popolo” diremmo oggi, che potevano essere anche una minaccia per i diritti delle minoranze.
Nel federalismo: nessuno può pensare se stesso come potenza assoluta Nessuno può essere un soggetto assoluto nel foedus ci completiamo a vicenda, troviamo una compiuta realizzazione del nostro essere, un po’ come è nello shalom ebraico e cristiano. E’ quindi il sistema del foedus che consente di costruire la comunità di stati e di popoli di cui l’unità europea doveva essere solo un modello. Il foedus che configura rapporti basati sulla fiducia configura una comunità di popoli, un insieme di popoli e Stati che non vivono in quella situazione di competizione perenne in cui ciascun Stato reclama la propria sovranità assoluta ed il diritto ad appropriarsi singolarmente dei beni rari necessari al progresso per poter sopravvivere. Il foedus esclude la lotta belluina per la sopravvivenza.
Il federalismo è il punto centrale del Manifesto di Ventotene. Ma non è nato a Ventotene. Ciò che scrissero gli uomini di Ventotene ( 1941) non è molto diverso da quanto scrissero due anni dopo gli uomini del Codice di Camaldoli ( 1943/45). Vi è una comunità internazionale (“ una vita comune internazionale”) di popoli e Stati da costruire per superare il dogma della sovranità assoluta dei poteri statali. Afferma il Codice di Camaldoli
“La creazione di una vita comune internazionale operata attraverso la cura e la gestione di interessi comuni ai vari popoli è la premessa ed il supposto indispensabile per la formazione di una società politica internazionale avente per finalità la armonia e la solidale e ordinata convivenza di queste libere forze e la loro azione comune e quindi la creazione di un vero e non fittizio o formale ordine giuridico che subordini o conformi la politica degli stati alla superiore esigenza della comune vita dei popoli. Solo e soprattutto con la formazione di questa libera società internazionale delle forze sociali nella piena espansione della loro natura, potrà essere superato effettivamente e nella realtà storica il falso dogma della sovranità assoluta dello stato, fonte e premessa di ogni ingiustizia e di ogni violenza internazionale e ragione precipua delle crisi e dei fallimenti avvenuti in tutti i tentativi di organizzazione di una comunità internazionale”.( Punto 96 del Codice di Camaldoli)
Questo non è questo facile irenismo. E’ invece il realismo profondo di chi sa distinguere tra Stato-persona e Stato-ordinamento. Uno Stato-ordinamento infatti diversamente dallo Stato-persona non può essere un soggetto assoluto e chiuso in se stesso. E’ un soggetto aperto verso il basso, verso le diverse formazioni sociali, ma aperto anche verso l’alto, verso una “comunità internazionale” da cui non è separabile.
Il sistema degli Stati infatti costituisce una “comunità”, cioè un insieme non legato da interessi e convenienze, ma anche da solidarietà e doveri reciproci ( “communitas” da “cum munus”, con il dovere). La “comune vita dei popoli” non ha nulla in comune con la globalizzazione, che – oggi lo vediamo col trumpismo in atto- ha moltiplicato i muri e le linee di divisione ed ha portato al parossismo la competizione, pure in sé utile.
Come non vedere in questo approccio l’origine delle “comunità europee” nate non per combattere un nemico o un sistema di potere non democratico, ma per rispondere in positivo a quel bisogno di “vita comune dei popoli” che la globalizzazione ha invece disastrato? Come potrebbe oggi l’ Europa negare questo senza negare se stessa? Come non vedere qui l’origine di un “ordinamento” che supera i confini nazionali e che si fonda su una logica opposta a quella della forza e della guerra globale e diversa anche da quella di chi considera la pace trascorsa come un puro risultato della deterrenza nucleare?, E’ questa l’unica logica che consente di far prevalere il diritto che è “fine” sulla forza, che è “mezzo” e tale deve rimanere. L’unica logica che ci impedisce di confonderli l’uno con l’altra.
L’ Atto finale di Helsinki del 1975 è un modello di questa PACE FEDERATIVA come anche la costituzione della CECA nel 1951. Qui sta il cuore del vero federalismo,quello da cui può rinascere quel modello di Europa e di unità europea di cui il mondo ha oggi urgente bisogno. (Segue)
Umberto Baldocchi