La decisione della Cgil e della Uil di proclamare uno sciopero di otto ore, articolato su cinque manifestazioni a partire dal 17 novembre, e della Cisl di programmare un’autonoma iniziativa di piazza a Roma per il 25 novembre, allarga ulteriormente la frattura tra le grandi confederazioni sindacali dei lavoratori. Nel caso specifico motivata da una diversa valutazione delle scelte operate dal Governo nella proposta di Legge di bilancio 2024. Ma è l’ultimo atto di una divergenza strategica, di un modo diverso di leggere l’evoluzione del mondo del lavoro e di offrire risposte alle criticità che trova un riscontro organico nel documento del CNEL approvato dalla maggioranza delle parti sociali, e il voto contrario della Cgil e della Uil, sull’attuazione della Direttiva europea sul salario minimo.

La crisi dei rapporti interni alle Confederazioni dei lavoratori trova un suo corrispettivo nella carenza del dialogo con le principali rappresentanze dei datori di lavoro, nei mancati rinnovi dei contratti collettivi nazionali per oltre la metà dei lavoratori privati. In particolare per quelli dei comparti economici dei servizi, nonostante le condizioni favorevoli offerte dal recupero della redditività delle imprese che si è consolidato dopo la pandemia Covid.
L’incapacità di offrire delle risposte concrete in presa diretta ha contribuito a trasferire il conflitto sul terreno politico, per rivendicare interventi governativi e parlamentari finalizzati a tutelare i salari e le pensioni dalla perdita del potere di acquisto. Nel caso della Cgil e della Uil, anche per introdurre un salario minimo legale che comporterebbe un’alterazione storica delle regole che hanno consentito l’affermazione del sistema contrattuale italiano.

Il complesso degli interventi contenuti nelle proposta di Legge di bilancio è il risultato della ricerca di un complicato equilibrio tra l’esigenza di contenere il deficit, che tiene conto anche del ridimensionamento delle stime della crescita economica, il prosieguo degli sgravi sui contributi previdenziali sulle retribuzioni di circa 14 milioni di lavoratori, e di alcune parziali risposte alle promesse elettorali sulla materia fiscale riscontrando le richieste dei partiti della maggioranza parlamentare. Provvedimenti per la gran parte finanziati con l’allargamento del deficit e che trasferiscono sulle future Leggi di bilancio delle cambiali che dovranno essere onorate. Non è una novità motivata dalle condizioni economiche congiunturali. È il tratto prevalente della gran parte dei provvedimenti di politica economica approvati negli ultimi 15 anni, con l’unica eccezione di quelli messi in campo durante la pandemia Covid utilizzando la sospensione dei vincoli di bilancio decisa dell’Ue con il supporto degli interventi della Bce per l’acquisto dei titoli del debito pubblico.

Un’evoluzione che ha vanificato in Italia tutti i tentativi di riformare il mercato del lavoro e le prestazioni sociali che avevano come obiettivo quello di accrescere l’occupazione e di rendere sostenibili le prestazioni sociali tenendo conto dell’invecchiamento della popolazione. Le statistiche internazionali che mettono in evidenza una crescita della produttività, dell’occupazione e dei salari di gran lunga superiori ai numeri italiani nei Paesi che hanno adottato queste riforme sono le stesse che vengono attualmente prese in considerazione dai protagonisti politici e sindacali che le hanno contrastate (ultima quella del Jobs Act) per motivare l’introduzione di un salario minimo legale e nuovi interventi statali a sostegno dei redditi. Ma questa formula è esattamente quella che è stata utilizzata negli ultimi 15 anni dai Governi di diversa estrazione e che ha contribuito ad aumentare in modo esponenziale la spesa pubblica dedicata allo scopo.

Tra il 2008 e il 2022 i trasferimenti dello Stato all’Inps presso il fondo Gias (la gestione dei provvedimenti assistenziali e di sostegno ai redditi) sono aumentati da 74 a 157 miliardi di euro all’anno, per compensare: i mancati versamenti previdenziali delle imprese e dei lavoratori; i costi delle anticipazioni dell’età pensionabile; le integrazioni delle pensioni minime; gli assegni sociali; i sostegni al reddito di diversa per le indennità di disoccupazione di varia natura e le famiglie con bassi redditi; l’Assegno unico per i minori. Tutti trasferimenti che non hanno evitato  l’aumento del numero delle persone povere e dei redditi da lavoro di basso importo.

Lo scenario geopolitico ed economico che si prospetta nei prossimi anni è stato ben delineato in un recente intervento pubblico dell’ex Presidente del Consiglio Mario Draghi, per l’esaurimento di tre fattori che hanno offerto un supporto decisivo alla crescita economica dell’area Euro: la protezione militare offerta dagli Usa; le importazioni di energia a basso costo provenienti dalla Russia; il ruolo trainante dell’import/export della Cina. Nella migliore delle ipotesi, tutt’altro che scontata, di un riposizionamento delle filiere produttive nell’ambito di un’evoluzione pacifica dei rapporti di potere tra le grandi aree geopolitiche, queste novità sono destinate ad aumentare i livelli di competizione nell’attrazione degli investimenti e delle risorse umane qualificate.

Il nostro Paese non è privo di punti di forza, che sono evidenti nella capacità di adattamento e di innovazione dimostrata delle aziende esportatrici, ma deve fare i conti con l’incremento degli oneri per il finanziamento del debito pubblico e l’aumento dei fabbisogni di spesa pubblica (e privata) per rendere sostenibile l’invecchiamento della popolazione. Per importi che tendono ad assorbire risorse superiori al tasso di crescita del Pil. Nel mercato del lavoro la riduzione della popolazione in età di lavoro e le difficoltà delle imprese nel trovare lavoratori disponibili e competenti rischiano di compromettere la disponibilità delle risorse umane che sono indispensabili per favorire la crescita degli investimenti e la riconversione delle attività produttive. Dalle risposte che sapremo offrire a queste criticità, in termini di tutele e servizi diffusi e personalizzati, dipenderanno i destini e la qualità della vita di milioni di lavoratori e concittadini.

L’insostenibilità del modello redistributivo a somma zero e che non trova un adeguato finanziamento dalla crescita dell’economia e della produttività del capitale e del lavoro è del tutto evidente. Dimostrata dall’andamento di alcuni indicatori economici e sociali: il sottoutilizzo delle risorse pubbliche del Pnrr e del risparmio privato disponibile nella direzione degli investimenti; l’incremento della quota del mismatch tra la domanda e l’offerta di lavoro che si avvicina al 50% dei fabbisogni delle imprese; la scarsa efficacia della spesa pubblica e delle politiche redistributive nel contenere le disuguaglianze di genere, di età e tra i territori.

Le condizioni per invertire la tendenza sono tecnicamente possibili. La prima è quella di aumentare il tasso di utilizzo delle risorse finanziarie pubbliche e private con politiche fiscali rivolte a incentivare l’attrazione degli investimenti e le start-up di nuove imprese. La seconda dipende dalla capacità di far crescere la produttività nell’ambito di tutte le organizzazioni del lavoro utilizzando l’enorme disponibilità di tecnologie digitali che non vengono impiegate in particolare in una parte rilevante dell’amministrazione pubblica e dei comparti di servizi privati. La terza condizione è legata alla crescita del tasso di occupazione, da ottenere con il ridimensionamento del numero delle persone disoccupate, sottoccupate e inattive e con l’incremento degli investimenti per accrescere le competenze delle risorse umane. Le tre condizioni precedenti sono difficilmente praticabili in assenza di un protagonismo attivo delle imprese e delle parti sociali. Il mancato recepimento di questi obiettivi da parte del sistema delle relazioni sindacali e nella redistribuzione del valore aggiunto generato verso i lavoratori riduce in modo drastico la possibilità di realizzarli e soprattutto di renderli accessibili alle quote dei lavoratori e della popolazione che sono meno attrezzate nell’affrontare la perdita del lavoro.

Buona parte dei cambiamenti economici e sociali del nostro Paese nella seconda parte del secolo scorso sono coincisi con aspre fasi di rottura tra le rappresentanze del mondo del lavoro. Quanto sta avvenendo per alcuni aspetti è persino auspicabile, se favorisce una presa d’atto dell’esaurimento delle politiche redistributive praticate negli anni 2000. Non è necessario riproporre gli schemi, del tutto superati, delle politiche dei redditi degli anni ’90. ma è del tutto evidente che la convergenza delle iniziative delle istituzioni e delle parti sociali rimane il presupposto essenziale per raggiungere gli obiettivi. Rispetto a quel periodo l’autorevolezza delle Confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori e la capacità di interpretare gli interessi di parte in modo coerente con quello generale si sono alquanto ridotte. La politicizzazione dello scontro, e gli scioperi proclamati, a prescindere dalla realistica possibilità di ottenere risultati, può risultare utile per i partiti di opposizione, ma contribuisce in via di fatto a delegittimare ulteriormente il ruolo delle parti sociali.

Natale Forlani

Pubblicato su www.ilsussidiario.net

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