La politica del nostro Paese neppure a fronte della scomparsa di Papa Francesco – lo dimostra la commemorazione del Pontefice che si è tenuta nei giorni scorsi a Camere congiunte, a Montecitorio – ha potuto fare a meno di mostrare i limiti strutturali – e, dunque, vincolanti ed, alla prova dei fatti, insuperabili – del sistema bipolare che conosciamo.
Per quanto ogni parte politica abbia cercato di adattarsi alla circostanza, nessuna ha saputo sottrarsi, dall’una e dall’altra parte, al rimpallo delle reciproche accuse di ipocrisia. E, forse, per la verità, questa volta non a torto, per gli uni e per gli altri.
Il fatto è che l’insegnamento di Papa Francesco – più in generale la Dottrina Sociale della Chiesa – viene vivisezionato e ciascun attore della nostra scena politica ne rivendica le parti che ritiene più consonanti alle proprie posizioni. In altri termini, destra e sinistra, concordemente, accostano il pensiero del Papa passandolo prima al setaccio fine dei propri “pregiudizi”, nel senso letterale del termine.
In buona sostanza, al Santo Padre, più che accoglierne l’insegnamento, si chiede semplicemente conferma di quanto già è consolidato nel proprio panorama mentale o ideologico. Si tratta, cioè, di forze ancora intrise dei cascami delle ideologie da cui derivano, per quanto queste siano state smentite e smontate dall’accadere della storia. Quindi, forze sostanzialmente incapaci di apprendere induttivamente dalle esperienze e dagli eventi che attraversano, fino al punto di mettere in discussione i loro propri assiomi, come dovrebbe avvenire in un sistema aperto. Sono strutturate, come tipicamente avviene, al contrario, nei sistemi chiusi, solo per dedurre pedissequamente, dai rispettivi impianti fondativi, teoremi politici e sociali che vengono meccanicamente snocciolati, spesso come incancellabile traccia mnemonica di un passato irrimediabilmente tramontato.
Vale per il “nazionalismo” della destra ed altrettanto per la postura “radicale” della sinistra. Succede, pertanto, che la destra impalmi le parole del Santo Padre quando condanna l’aborto e, addirittura, i “sicari” che lo procurano e le respinga frontalmente quando difende a viso aperto i migranti e li chiama – come ci ha ricordato Romano Prodi, su Avvenire, in questi giorni – “lottatori di speranza”.
Altrettanto succede, a parti inverse, dall’altra parte, dove non mancheranno di creare allarme e scandalo le parole che Francesco ha pronunciato, negli ultimi giorni della sua vita, in difesa degli embrioni.
Come Papa Giovanni, anche Papa Francesco ha saputo sempre distinguere l’ “errante” dall’ “errore”, secondo una puntuale consonanza tra la difesa dei capisaldi della dottrina cattolica e l’aperta, inclusiva, accogliente dimensione pastorale del suo ministero.
Ad ogni modo, questa divaricazione dell’ insegnamento del Pontefice – impostata dalla politica di casa nostra, al punto d’esserle connaturata – ne rappresenta una sostanziale debolezza. La “vita” ed i valori che vi sono connessi sono un tutt’uno che si tiene da cima a fondo e non possono, dunque, essere scomposti e separati. Quasi fossero brandelli, a meno di smarrirne del tutto anche quei riferimenti parziali che, pur, gli uni da una parte, gli altri su un differente versante, vorrebbero salvaguardare. Mai, come in questo campo, tutto si tiene, tutta sta o cade assieme.
Del resto, la conciliazione di questi due fronti – quello dell’ “etica” è quello del “sociale”, come li definì’, al tempo della sua Presidenza della CEI, il Cardinal Bassetti – dovrebbe essere di più facile composizione, nel momento in cui molti fattori, a cominciare dallo sviluppo di tanti rami dello stesso sapere scientifico, ci spingono verso una approfondita ed inevitabile riflessione antropologica.
Non dovrebbero essere anzitutto i cattolici – anche sul piano dell’impegno politico – i primi a ricucire le ferite e le troppe slabbrature in fette al valore originario ed irriducibile della vita?
Domenico Galbiati