“…senza chiuderci nel nostro piccolo gruppo, né sentirci superiori al mondo, siamo chiamati ad offrire a tutti l’Amore di Dio, perché si realizzi quell’unità che non annulla le differenze, ma valorizza la storia personale di ciascuno….”.
La “storia personale di ciascuno…”. Anche di “chi coltiva l’inquietudine della ricerca di Dio”. Anche gli atei – o convinti di essere tali – e gli agnostici vanno, dunque, ricompresi in quel “tutti, tutti, tutti” cui la Chiesa apre le porte. “Fratelli tutti”, ripete Papa Leone, con le stesse parole di Francesco.
Di norma, all’inquietudine si cerca di sfuggire. Perché , invece, “coltivarla “? Da discepolo di Agostino, Papa Leone sa che c’è Dio nell’anima ed in molti li arrovella. Si “coltiva” l’inquietudine, anche senza volerlo e, perfino, a proprio dispetto, come un bene prezioso, per quanto sofferto, perché si avverte – in questi nostri giorni tormentati, eppure straordinariamente ricchi – l’eco, sia pure ancora lontana, di quanto possa essere feconda.
Questa attenzione a chi non ha il dono della fede, non è stata sottolineata a sufficienza dalla gran parte dei commentatori che hanno dato la loro lettura e la loro interpretazione delle parole di Papa Leone, domenica in piazza San Pietro.
Eppure, rappresenta un passaggio fondamentale. Forse, il cardine attorno a cui potrebbero nascere nuove, non pregiudiziali forme di dialogo e di reciproca comprensione tra chi crede e chi non crede. Superando una dicotomia che non sa cogliere la reciproca provocazione che gli uni trasmettono agli altri, evocando una riflessione più profonda sull’ “autocomprensione”, su quella consapevolezza di sé che l’umanità è chiamata ad affinare a fronte delle trasformazioni che toccano da vicino il “cuore” di ciò che è più autenticamente “umano”. Come se tutti gli indirizzi di pensiero e le stesse forze politiche dovessero seriamente ripensare molti loro presupposti, affrontando un percorso che potremmo chiamare di “rifondazione antropologica” delle loro dottrine.
Del resto, a fronte dell’elezione di Papa Leone è parso di cogliere, da parte di molti “laici”, un’attenzione nuova, meno scontata, non solo incuriosita, ma piuttosto capace di interrogarsi a fondo.
Viviamo in un mondo esausto e smarrito che avverte una impellente domanda di “salvezza”, cioè di quella dimensione spirituale che – come ha riconosciuto in un suo intervento televisivo, Fausto Bertinotti – e incancellabile e di cui non si può fare a meno, anche per dar conto di processi storici, che non ci stanno più nelle gabbie soffocanti di questa o di quell’altra ideologia.
Si può sperare che si avvicini il tempo di una comune e nuova riflessione, disincantata ed aperta nel senso dell’ “Etsi Deus daretur”, invocato da Papa Benedetto?
Si tratta di riflessioni o, meglio, domande che, per quanto slegate, confuse e solo embrionali, richiamano alla memoria – ma è solo un esempio – il pensiero di Francois Julien. Filosofo francese, dichiaratamente ateo, appassionato lettore del Vangelo di Giovanni, Jullien si interroga su “quello che il cristianesimo ha fatto al pensiero”, sulla fecondità del cristianesimo per la filosofia. Lo fa in un piccolo volume – “Le risorse del cristianesimo” – che prende le mosse da una lettura originale del quarto Vangelo. Per concludere che il cristianesimo rappresenta, anche per i nostri giorni e pure per chi è lontano dalla fede, l’unica via di accesso all’ “evento” – come lo chiama Jullien – cioè alla “novità” che irrompe nella storia, a quella capacità di “de-coincidere” da noi stessi che ci costringe a ricercare quale sia il senso ultimo, il vero, più profondo significato della vita e dell’uomo.
Da ciò deriva due considerazioni. Il cristianesimo è importante per le sue radici, ma soprattutto – e tale deve concepirsi – lo è come “risorsa”. Le radici valgono, in modo particolare, per i credenti, ma, in qualche modo, ne circoscrivono la forza rivoluzionaria a tale ambito. Considerato quale “risorsa” acquisisce davvero una dimensione universale e parla a tutti, a prescindere o meno dal dono della fede. Parla, appunto, anche a “chi coltiva l’inquietudine della ricerca di Dio”.
Altra considerazione che trae, questa volta di carattere più strettamente filosofico. La dottrina cristiana risolve l’eterno dilemma che attraversa da sempre, fin dai suoi primi vagiti, la storia del pensiero: il nodo irrisolto tra “essere” e “divenire”. E, in certo qual modo, si scorge qui un’impronta della sua verità.
Vi sono, in sostanza, voci che vengono da un mondo apparentemente così lontano e dissonante, se non avverso, dalle quali anche chi ha ricevuto il “dono” della fede deve lasciarsi interrogare.
Domenico Galbiati