Il 9 maggio del 1978 venne raccolto pietosamente il corpo di Aldo Moro ucciso dalle Brigate Rosse che lo volevano morto  sin da quando progettarono il suo rapimento. In lui si sintetizzava, infatti, quell’attitudine moderna, ma insolita, ad indagare sulla complessità della vita civile, delle relazioni economiche e sociali, dell’articolarsi della lotta politica e del ruolo dello Stato e delle istituzioni. Aldo Moro rappresentava una perfetta e completa antitesi culturale e umana del terrorismo, e non solo.

Scrisse, infatti,una volta:” E come forza di liberazione, accanto ad altre, diverse per le loro motivazioni e i loro modi d’essere, dobbiamo considerare la nostra, alla quale rispetto e fiducia nell’uomo tolgono la tentazione traumatica ed illusoria alla violenza, ed attribuiscono invece un compito di evoluzione che, per essere realizzata attraverso i canali del sistema democratico, non è perciò meno incisiva e radicale”.

Lo statista democristiano incarnava la continuità di quella “novità” politica rappresentata in Italia e in Europa dal pensiero del cristianesimo democratico e popolare. Quello che, a ben guardare, ha in effetti vinto il conflitto storico con il socialismo reale sovietico ed altre forme di totalitarismo. Una vittoria che i suoi epigoni non hanno poi saputo concretizzare perché, per tanti motivi e tante carenze, non sono stati in grado di sostenere con il pensiero e l’azione la strada da lui tracciata quale inevitabile sviluppo di quella percorsa da don Luigi Sturzo e da Alcide De Gasperi.

Forse, anche perché egli mancando, sono stati smarriti i significati profondi di taluni aspetti che avevano reso possibile la nascita e il consolidarsi del fenomeno politico di natura cristiano democratica. Forte, tenace, diffuso e condiviso perché efficace divenire di ” fatto” nazionale e popolare. In virtù di quella capacità di coniugare il massimo possibile di pluralità e unità, assicurate sia nel Paese, sia nel partito di ininterrotta maggioranza relativa. Un partito a lungo vocato a ciò che si esprimeva anche nella formula morotea della “flessibilità costruttiva”.

Aldo Moro fece propri gli insegnamenti sturziani sulla necessità che un partito ispirato cristianamente riuscisse a permeare della propria autonomia e della propria aconfessionalità quella sostanza programmatica  indispensabile a definire la “ricerca di contenuti nuovi”.

In questa occasione, per ritrovare i fondamenti del suo pensare e del suo agire politico, mi sto riferendo soprattutto ad uno scritto di Moro degli anni ’60 dedicato a don Sturzo. Provo a partire dalla idiosincrasia  morotea verso ogni forma di accondiscendenza nei confronti di quell’ ”ibridismo politico-religioso” che il prete di Caltagirone addebitava sia all’Opera dei Congressi siciliana, sia a Romolo Murri. L’incoraggiare quell’ibridismo, forte ai tempi di Sturzo, meno a quelli di Moro, ma che oggi invece torna a serpeggiare in taluni ambienti cattolici, si pone in oggettiva alternativa all’idea del partito popolare e nazionale.

Invece, precisarono sia Sturzo, sia Moro, ma di conserva aveva viaggiato Alcide De Gasperi, si tratta di concepire un partito non cattolico, aconfessionale, dal forte contenuto democratico, che “ si ispira alla idealità cristiana, ma che non prende la religione come elemento di differenziazione politica”.

Moro lo pensava e lo scriveva a caratteri cubitali: autonomia e aconfessionalità costituiscono i tratti distintivi di questo partito. Egli avvertiva necessario giungere a una “ effettiva e non fittizia distinzione fra azione cattolica e azione politica, senza diminuzione di autorità per alcuno dei due settori, uniti nella difesa degli interessi religiosi e morali, separati nel perseguimento di fini politici”.

Non basta, insomma, definirsi cristiani per concorrere a una stessa formazione politica di cui, invece, è doveroso precisare adeguatamente, persino puntigliosamente, metodo, contenuti e prospettive politiche ed istituzionali.

Leopoldo Elia, in polemica con Baget Bozzo, negò la validità del rimprovero mosso a Moro perché “nella laicità del suo operare politico” si sarebbe avvertita “una netta diminuzione di ispirazione religiosa”. Sapendo bene che questi rilievi, in realtà, esprimevano il malumore della destra integralista, ma anche di quella non cattolica. Elia ricordò come Moro, senza essersi lasciato fermare da queste “remore nel cammino lucidamente intrapreso”, si oppose in “modo drastico e molto appassionato ad ogni tentazione di separare, nel nome e nell’ideologia, le origini del partito democratico-cristiano dal suo modo d’essere e di presentarsi”.

Moro andò per la sua strada e ricordò che “non c’è certamente nella caratterizzazione cristiana del partito nessuna pretesa di utilizzare una inammissibile disciplina confessionale, di costruire una sorta di sbarramento che impedisca a taluni di entrare e ad altri di uscire”.

Moro sentiva “obbligante l’eredità” che gli era toccato ricevere. Il motivo stava nel fatto che “l’esperienza cristiana è sentita come principio di non appagamento e di mutamento dell’esistente nel suo significato spirituale e nella sua struttura sociale”.

E’ sulla base della ricerca di una risposta alla mancanza di appagamento sociale e civile, stimolo a sollecitare un metodo politico applicato alla realtà concreta delle cose, che Moro fa tutta intera sua la stessa battaglia condotta da Sturzo contro il clerico moderatismo

Il riferimento al fondatore del Partito popolare vale soprattutto perché l’idea di fondazione di un’organizzazione politica  non può essere animata dall’aspirazione alla creazione di una “Parte”. Questa è destinata, per la forza che sta nel termine stesso, indicante com’è una porzione dell’intero, a prendersi cura solamente di un campo delimitato. In ambito cattolico, ciò potrebbe presentarsi vieppiù infido perché lascia collocati in bilico sul crinale che degrada  verso l’autoreferenzialità e l’integralismo.

“ Il popolarismo, scandisce Moro, non pose tra i suoi obiettivi il conseguimento dell’unità dei cattolici, utile e necessaria nella vita religiosa; d’altronde, il ricercare costantemente una soluzione democratica non poteva costituire un orientamento anche per coloro che erano fermi ad una visione conservatrice”.

Egli intende, dunque, enfatizzare la raffigurazione di quella che definisce un’ “ idea forza” di natura popolare, capace d’interpretare e guidare i coincidenti e diffusi sentimenti nazionali. La stessa che in Sturzo diviene  strumento politico per condurre la “battaglia anticlericale, antigiolittiana, antimoderata” nella consapevolezza che la classe dirigente liberale post unitaria non fosse mossa affatto dal “desiderio di avere l’elemento cattolico nella vita pubblica” perché animata solamente dal “desiderio di avere i voti dei cattolici”. Quanta assonanza con ciò che ci riguarda ai nostri giorni.

Moro riprendeva a sua volta la polemica  contro la destra cattolica e quei cattolici definiti compiacenti:” i quali han creduto che a loro e al Paese potesse giovare questa politica di eunuchi, di gente che dà il suo aiuto a chi domani li contrasterà nel campo religioso, anche chi muove e muoverà guerra alla religione e al popolo. Ma c’è di peggio: noi combattiamo i socialisti, è vero, ma con la forza nostra e con le nostre idee, che hanno un valore sociale democratico; invece, appoggiando i moderati e i conservatori, si è fatta opera di reazione, si è andato contro un complesso di aspirazioni e di vitalità, che rispondono ai bisogni del proletariato, all’avvenire delle forze sociali cristiane”.

Dunque Moro rifugge completamente dall’idea di cristiani democratici chiusi nell’ arroccamento autoreferenziale e non assertori di “una tendenza politica nazionale nello sviluppo del vivere civile”. Sturzo  e Moro concordano sul fatto che una visione da “eunuchi” finisce per allontanare la formazione di un “nostro partito civile sociale e politico”.

Moro, così, coglie la modernità di una proposta che, superando le “organizzazioni che diventano chiesuole”, naturalmente presuppone il disegno di un “partito cristiano-laico”.

Ecco perché c’è l’attenzione a un programma fatto da  un “insieme di principi e propositi”, che  rispondano “ai criteri amministrativi e sociali e al grado di evoluzione e di cultura del corpo elettorale”. Non una partecipazione alle lotte elettorali con un “idea religiosa messa come insegna di lotte cittadine”, bensì, come Moro ebbe a dire al Congresso nazionale della Dc del 1976, perché chiamati a raccogliere “ con sensibilità popolare, con consapevolezza democratica, tutte le invenzioni dell’uomo nuovo a questo livello dello sviluppo democratico”.

Giancarlo Infante

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