La nostra epoca è caratterizzata da innovazioni tecnologiche travolgenti e da cambiamenti culturali profondi ma anche ambigui, nel quadro generale di una crisi politica, economica e istituzionale che colpisce la vita delle famiglie e che, spesso, affonda le proprie radici in un travaglio morale[1]. Anche in Sicilia la società vive una transizione profonda, nell’ambito di complessi e mobili schemi di comunicazione e di linguaggio, con alcune manifestazioni di disorientamento morale ma anche di nuove ricerche di sintesi culturali e di una tensione rinnovata verso una vita più conforme alle aspirazioni più profonde del cuore.

La Sicilia, da sempre regione-continente, ha subìto e sta subendo un ulteriore incremento del livello di complessità con il moltiplicarsi delle componenti sociali ed economiche e anche con la nascita di nuovi poli di riferimento politico ed economico[2] e tutto ciò, comunque, non ha contribuito a migliorare le problematiche e le lacerazioni presenti sul territorio. Esse sono di diversa grandezza ed esprimono contrasti e ambivalenze, di cui le più evidenti sono quelle che riguardano la legalità e l’illegalità, il contrasto nello sviluppo tra aree della stessa regione, la produzione di ricchezza e il mantenimento dell’assistenzialismo, la differenza tra stili di vita culturalmente più aperti e stili più chiusi e refrattari, vecchie e nuove forme di criminalità e di devianza, povertà marcata e consumismo opulento.

Ma la perennità e la ciclicità delle numerose negatività presenti nella nostra Regione sembrano sottrarle a una dimensione prettamente economica e di circolazione monetaria: essi sembrano dipendere da formae mentis legate alla storia e alla tradizione politica dell’Isola che continuano a influenzare la gestione della cosa pubblica. Questi modi di pensare e di agire sono leggibili come l’espressione di concrezioni spirituali negative originate dall’accumulo reiterato e inveterato di atti e atteggiamenti egoistici da parte di individui e di gruppi di interesse quasi totalmente dimentichi della legalità e della nozione del bene comune. Tra queste, è necessario riconoscere l’influsso nefasto e mortificante che la mafia ha avuto e continua ad avere sulla società siciliana e sulle sue classi dirigenti, non solo nella forma specifica delle attività criminali, ma anche e soprattutto in termini di pseudocultura, di serpeggianti illegalità e di conseguenti concezioni distorte e strumentali a proposito di rapporti economici e sociali buoni ed equilibrati.  La mafia non è solo una potente organizzazione criminale: essa implica un modo di pensare la socialità e la legalità che stravolge il significato di queste categorie. Uno studio recente ha analizzato queste radici negative dal punto di vista sociologico identificandone una matrice nel concetto di “legalità debole”: un concetto, ma anche un modus operandi, che è già diventato un formidabile ostacolo a un pieno sviluppo della Sicilia e del Mezzogiorno in generale[3]. Questo modo di concepire la legalità è figlia di politiche pubbliche afflitte e indebolite dalla previsione dell’inefficacia dell’applicazione delle leggi o della loro interpretazione particolaristica e clientelare, per cui gli attori economici non considerano attendibili le finalità indicate dal legislatore, con la conseguente fuga dal Sud da parte degli imprenditori che vorrebbero fare impresa in Sicilia e nel Mezzogiorno in generale, nella previsione delle mille difficoltà che incontreranno. Certamente, la lotta alla mafia è indispensabile per una sana politica di sviluppo economico, ma a queste dinamiche è necessario affiancare un significativo cambiamento di rotta a proposito di almeno altri due elementi presenti sullo scenario: la mancanza di politiche pubbliche che incidano significativamente sullo spessore e sull’efficacia effettiva della legalità e una decisa alimentazione del cosiddetto capitale sociale, una risorsa fondamentale presente in Sicilia ma spesso trascurata e negletta. Chiarirne il significato è opportuno anche se non è semplice o univoco offrire una definizione di capitale sociale: esso è comunque definibile come una spinta coesiva tra le diverse parti sociali coinvolte per la realizzazione di un bene collettivo:

Il capitale sociale si può intendere come una componente della struttura sociale che si concretizza in caratteristiche istituzionali e normative (CS collettivo), e perciò «appropriabili» da parte dell’individuo e della collettività al fine di raggiungere benefici non altrimenti raggiungibili […]. Si creano così relazioni di autorità e di fiducia […], cioè «strutture di interazione», che dunque possono essere viste o come risorse a cui può attingere l’individuo singolarmente […] o come componenti della struttura sociale che condizionano l’agire individuale[4].

Di questa risorsa parlano i vescovi dell’Isola quando denunciano le gravi e inveterate carenze delle politiche sociali regionali, incapaci di innescare circoli virtuosi per alimentare il capitale sociale ma capaci invece di generare quella che è definibile come distorsione particolaristica dello stesso capitale sociale: a questo proposito diversi autori, come R. D. Putnam, A. La Spina e F. Lo Verde[5], con le loro analisi hanno illustrato le radici di queste storture, offrendo così la possibilità di trovare soluzioni e strategie risolutive e significative anche per la sensibilità ecclesiale. In particolare, in un suo celebre saggio[6] Putnam aveva già indicato la natura di questo tipo di capitale, associandolo a dimensioni tipiche dell’organizzazione sociale come la fiducia, l’associazionismo civico o le norme di reciprocità: elementi in grado di far lievitare l’efficienza sociale, promuovendo l’azione collettiva e la cooperazione tra i vari attori sociali coinvolti. Ma lo stesso autore ha anche evidenziato come nel Mezzogiorno italiano il capitale sociale sia carente a causa di una errata polarizzazione delle relazioni sociali, spesso orientate al conseguimento di vari benefici personali o familiari: una polarizzazione radicata in un antico particolarismo familistico che giova solo ad alcuni trascurando il bene sociale maggiore. E’ necessario considerare anche che su questo vissuto storico si innesta un’azione politica che purtroppo risente fortemente di queste dinamiche: infatti sull’applicazione particolaristica di norme generali e di conseguenti e possibili distribuzioni monetarie la politica siciliana e meridionale in genere ha costruito le sue fortune, determinando nel tempo gravi carenze di competitività e di gestione equilibrata nell’erogazione delle risorse a favore della collettività concreta. Dunque, mens mafiosa, legalità debole e capitale sociale carente sembrano essere i tre denominatori comuni i cui effetti alimentano, in modo trasversale, tutte le negatività presenti in Sicilia:

Il primo nodo è proprio quello della classe dirigente, non solo di quella politica, che dovrebbe caratterizzarsi sempre […] con la cifra del rigore etico e della competenza socio-politica. Essa costituisce la misura concreta di quella trasparenza […] richiesta da tutti i cittadini, per non rimanere una ripetitiva evocazione retorica, utile solo ad ottenere un generico consenso elettorale e mediatico e non per affrontare adeguatamente i tanti problemi che sono sul tappeto[7].

Infatti, oltre ai tre denominatori comuni appena analizzati, tra le cause apicali delle negatività è annoverabile l’orizzonte motivazionale e morale di chi riceve una carica pubblica e si impegna ad esercitarla: ancora una volta, la perennità dei problemi alimenta il dubbio su questa dimensione. Qui si può richiamare quanto già i vescovi di Sicilia affermavano nel documento Finchè non sorga come stella la sua giustizia (1996), ricordando la necessità di un rinnovamento profondo della classe politica con la presenza di uomini “nuovi”, capaci di incarnare i pregnanti termini evangelici: “sale e luce” (Mt 5,13-16) e non solo di un riciclaggio di vecchi apparati di potere accompagnati da corruttele e inefficienze[8]. E sul piano delle proposte possibili in questa direzione torna in primo piano l’esigenza improcrastinabile di formare cittadini attivi per un’attività politica il più possibile lineare e trasparente al servizio del bene comune. Molto probabilmente, l’orientamento più significativo per tale orizzonte è l’ormai tradizionale monito di Paolo VI:

L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri […], o se ascolta i maestri lo fa perchè sono dei testimoni[9].

Ascoltare, discernere le competenze e la coerenza di vita e di spessore morale dei candidati alle cariche pubbliche rimangono elementi strutturali che non andrebbero mai dimenticati da parte dei partiti politici, ma che purtroppo invece sempre cedono il passo alle ormai altrettanto strutturali richieste di portaborse, procacciatori di voti, yes men e simili: la formazione globale dei candidati alle varie cariche dovrebbe essere considerata una priorità politica. Invece contenuti come la tutela dell’interiorità della persona, la cura della vita, la formazione al sapere critico, il superamento della dicotomia pubblico/privato, la convivenza delle differenze, la difesa della legalità democratica[10] sembrano essere considerati merce ingombrante e poco funzionale al raggiungimento di obiettivi primari come il bene comune e la pace sociale, mentre proprio essi edificano lo spessore morale necessario a chi si occupa di amministrare ai vari livelli, contribuendo così alla comprensione generale dell’orizzonte comune da costruire e verso cui incamminarsi:

Vero vincitore e migliore politico è colui che riesce a far capire agli altri la portata dei valori comuni in cui tutti possono riconoscere spazi di libertà e di realizzazione validi per sé[11].

Luca Novara

 

[2]Cf M.T. Gaudesi, “Area sociale”, in Una presenza per servire, Atti dei Convegni delle Chiese di Sicilia, Palermo 1985, 116-119.

[3]Cf G. Notari, “Sfide e percorsi per il Sud Italia”, Aggiornamenti sociali 12 (2005) 835-839.

 

[4]F. Lo Verde, “Capitale sociale”, Aggiornamenti sociali 12 (2003) 820.

[5]Cf A. La Spina, Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna 2005. F. Lo Verde, “Capitale sociale”, Aggiornamenti sociali 12 (2003) 819-822. R.D. Putnam, Capitale sociale e individualismo, Il Mulino, Bologna 2004.

[6]R.D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993.

[7]Conferenza Episcopale Siciliana, “Considerazioni dei Vescovi Siciliani sull’attuale congiuntura della nostra Regione”, Rivista Diocesana di Siracusa 103 (2014) 2, 38.

[8]Cf Conferenza Episcopale Siciliana, Finché non sorga come stella la sua giustizia, [in Segreteria Pastorale regionale (cur), Chiese di Sicilia 9, Palermo 1996], n. 20.

[9]Paolo VI, Esortazione apostolica sull’evangelizzazione Evangelii Nuntiandi (Roma, 8 dicembre 1975), [in Enchiridion Vaticanum 5, 1008-1125], 41.

 

[10]Cf F. Occhetta, “Il cristiano in politica: linee-guida per un nuovo impegno”, Aggiornamenti sociali 11 (2004) 742.

[11]L.F. Pizzolato – F. Pizzolato, Invito alla politica. Linee di un percorso di formazione, Vita e Pensiero, Milano 2003, 46.

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