Rispondo all’articolo di Massimo Brindisini dal titolo “Una donna a capo della Chiesa d’Inghilterra” pubblicato due giorni fa (CLICCA QUI). Egli si chiede se il fatto che alcune chiese ammettono al sacerdozio ministeriale le donne non sia un impedimento al raggiungimento dell’unità tra i cristiani. Questa è una domanda legittima e del tutto giustificata, ma poi egli suggerisce che per rimuovere quest’ostacolo la Chiesa cattolica dovrebbe rivedere la sua posizione e ammettere anche le donne al sacerdozio. Ovviamente alla base della richiesta di molte donne di essere ammesse al sacerdozio ministeriale c’è il processo di emancipazione femminile.
Sicuramente la posizione cattolica sul sacerdozio femminile è una reale difficoltà ecumenica, perché tocca la comprensione stessa del ministero e della successione apostolica, ma non è un ostacolo assoluto, poiché il dialogo ecumenico mira oggi a costruire unità nella diversità, senza chiedere a ciascuna Chiesa di rinunciare alla propria identità teologica e, infine, l’approfondimento comune del ruolo e della dignità della donna nella vita ecclesiale rimane uno dei terreni più promettenti di dialogo tra le diverse tradizioni cristiane. Quello che però si deve enfatizzare è che esclusione delle donne dal sacerdozio ministeriale deriva da una motivazione teologica e sacramentale.
La difficoltà teologica deriva dal fatto che la Chiesa, vincolata alla libera scelta di Cristo che chiamò solo uomini come apostoli, non ritiene di poter conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne. Oltre a questa, c’è una difficoltà sacramentale: il sacerdote rappresenta Cristo Sposo nei confronti della Chiesa Sposa, la cui dimensione “femminile” è essenziale e incarnata in Maria. Quindi alla base non c’è una logica di potere maschile. La Chiesa vede nel desiderio di emancipazione delle donne una legittima aspirazione e intende sostenerla, ma la Chiesa non è una democrazia e il suo fondamento è Gesù Cristo, a Lui, prima che agli orientamenti culturali, fossero anche di tutte le persone (ma non lo sono mai), lei deve fedeltà.
Ricordo che Gesù, quando, dopo aver parlato dell’eucarestia, fu abbandonato da molti discepoli, chiese agli apostoli se volessero andarsene pure loro. Giovanni Paolo II ha sviluppato una visione profonda e coerente della donna, fondata sull’uguaglianza di dignità tra uomo e donna, entrambi creati a immagine di Dio, e sulla valorizzazione della loro differenza come segno di complementarità, non di subordinazione.
Nelle sue lettere Mulieris Dignitatem (1988) e Lettera alle donne (1995), il Papa sottolinea che la donna possiede un “genio” proprio — una particolare capacità di accoglienza, cura e generazione, fisica e spirituale — che deve essere riconosciuto e valorizzato nella Chiesa e nella società. Maria ne è il modello perfetto, perché nella sua fede e maternità si rivela la piena vocazione femminile. Questa linea è stata confermata da Benedetto XVI, che ha ribadito l’impossibilità dottrinale del sacerdozio femminile ma ha esortato a una più ampia presenza delle donne nei luoghi di responsabilità ecclesiale, e da papa Francesco, che pur mantenendo intatta la posizione teologica dei predecessori, promuove con forza una maggiore partecipazione delle donne nella vita pastorale, teologica e decisionale della Chiesa (Egli ha messo delle donne in ruoli apicali della Curia).
In sintesi, il magistero recente unisce la difesa della piena dignità e partecipazione femminile con la fedeltà alla tradizione sacramentale, indicando nella reciprocità tra uomo e donna il fondamento autentico di una Chiesa e di un mondo più giusti. L’ultimo rilievo che faccio a Massimo è questo. Egli secondo me non approfondisce adeguatamente la posizione della Chiesa, ma si rifà alla posizione di religiosi e preti apostati.
Rosario Di Stefano