Con l’installarsi del grande freddo, la guerra in corso in Ucraina sembra essere entrata in una fase nuova e diversa. Diversa non solo per l’arrivo sul campo di battaglia di quel formidabile alleato che è sempre stato per la Russia il “generale inverno”, ma anche per il suo modus operandi, che sarà – anzi è già – differente da quello che si era visto all’opera non solo nell’invasione napoleonica del 1812, ma ancora in quella molto più recente da parte delle 90 divisioni di Hitler.
Tradizionalmente, la sua forza consisteva nel creare enormi difficoltà operative principalmente all’esercito invasore, in genere non abituato ad operare nelle estreme condizioni climatiche delle grandi pianure euro-orientali contro un difensore familiare con il territorio. Nel caso attuale, invece, nello scontro tra Russi e Ucraini, in questa lotta contro le difficoltà ambientali, i due eserciti sono quasi alla pari, salvo che per il fatto che gli Ucraini vorrebbero continuare nella loro controffensiva, più difficile del posizionamento difensivo dell’esercito russo.
A ciò si aggiunge, come sostanziale elemento di novità rispetto ai precedenti storici, la maggiore sofisticazione degli armamenti del ventunesimo secolo, non solo rispetto a quelli allora in dotazione all’esercito tedesco, ma anche a quelli ereditati dall’era sovietica. Sofisticazione e dotazione che chiaramente giocano a pieno il loro ruolo, oggi che gli Stati Uniti sono spavaldamente diventati l’inesauribile arsenale dell’Ucraina e del suo bellicoso presidente Zelensky.
Attacco alle infrastrutture
Chi fa le spese dell’ inarrestabile tendenza a creare armi sempre più distruttive, che non si è certo interrotta nel trentennio appena conclusosi – il trentennio del post-Guerra Fredda e della globalizzazione – è ovviamente la popolazione civile che vive sul campo di battaglia, gli Ucraini, che possono essere colpiti in modo nuovo dalla forza del “generale inverno”. Un evidente dato di fatto di cui la Russia ha immediatamente approfittato, rispondendo con un cambiamento strategico molto significativo, e che si vede all’opera nella scelta degli obiettivi per la pioggia di bombe e di missili che cadono sulle infrastrutture energetiche del paese invaso.
E’ questa, la distruzione sistematica di queste infrastrutture essenziali, un elemento relativamente nuovo, che è stato messo in atto solo nella fase matura del conflitto russo-ucraino, all’avvicinarsi dell’inverno. Esso era infatti stato quasi completamente assente nelle prime fase della “operazione speciale”, quella che – come temuto anche da parte occidentale – avrebbe dovuto con un blitz riportare gran parte del territorio ucraino, se non tutto, sotto il controllo di Mosca.
Una scelta chiaramente deliberata, quella di colpire gli aeroporti, ma di risparmiare le infrastrutture energetiche, che fu allora fonte di una certa sorpresa da parte di qualcuno dei più esperti generali italiani, e non mancò di essere notata come piuttosto peculiare dal punto di vista tattico, nel momento in cui si tentava di impadronirsi della capitale nemica. In realtà, fu una scelta derivante dall’ipotesi politica di fondo dell’invasore: quella che la popolazione civile dell’Ucraina non fosse in definitiva ostile ad un ritorno alla grande patria russa, che tale sentimento andasse tutelato, e che pertanto la “operazione speciale” andasse condotta solamente contro le “milizie neonaziste” e i volontari addestrati dalla Nato che formavano il nucleo essenziale della difesa ucraina.
Al buio ma non in silenzio
Nell’attuale fase della guerra, che viene dopo una stabilizzazione delle basse temperature destinata a protrarsi per almeno i prossimi tre mesi, ci si trova di fronte ad una valutazione politica – da parte di Mosca – più realistica di quella di allora, e conseguentemente ad una diversa scelta strategica; scelta concretatasi appunto in una sistematica distruzione dei centri di produzione elettrica dell’Ucraina e – in parte – della relativa rete di distribuzione, cui si aggiungerebbe il diniego delle forniture di gas e di tutti gli altri beni e servizi la cui disponibilità dipende dall’approvvigionamento elettrico. Distruzioni e dinieghi – cioè – cui difficilmente l’industria bellica americana potrà trovare una contromisura immediata.
Certo! Si tratta di distruzioni che forniranno ampie occasioni di business, e non solo alle imprese americane, ma forse anche – e magari soprattutto – a quelle cinesi, quando verrà il momento della ricostruzione. Ma distruzioni alle quali, per il momento, sembra difficile porre rimedio in tempi e modi che evitino per la popolazione ucraina un terribile inverno trascorso al buio e al gelo.
Con una sola parziale eccezione, tuttavia. Quella dei sistemi di comunicazione e di informazione che, per la loro miniaturizzazione, la loro portabilità, e la possibilità di farli funzionare con batterie ed alimentatori relativamente piccoli, riescono in una qualche misura a proteggere gli Ucraini dall’isolamento e dal silenzio, mantenendone vigile l’impegno e lo spirito critico. La popolazione, insomma, è al buio e al freddo, ma non è tagliata fuori dallo scontro politico che coincide con quello militare. Pur trovandosi in una situazione di conflitto, in cui da parte di ognuno dei belligeranti inevitabilmente prevalgono la censura e la propaganda, è in grado di formarsi una propria opinione sugli eventi in corso, ed avere delle aspirazioni su come essi dovrebbero preferibilmente evolversi.
Non poco complicato è perciò diventato – a meno di quella escalation ulteriore verso la Terza Guerra Mondiale, di cui certo non a caso ha parlato il Cancelliere tedesco Olaf Scholz– evitare che si crei in Ucraina la situazione psicologica e politica cui Mosca sembra mirare: una situazione nella quale l’esasperazione e il finora non udibile – ma assai logico – desiderio di tornare alla pace da parte del martoriato popolo ucraino diventi abbastanza forte da pesare politicamente. E da costringere Zelensky ed i suoi alleati internazionali a moderare lo spirito di riconquista dell’intera Ucraina, compresi i territori perduti nel 2014, a ridimensionare l’ambizione di imporre una umiliante sconfitta alla Russia, e a rinunciare al progetto, esplicitato da Biden durante la visita in Polonia, di favorire l’ascesa al Cremlino di una persona diversa da Putin.
Più profughi?
Al momento, per fronteggiare questa crudele strategia di Mosca, le autorità ucraine sembrano orientate a mettere in atto una politica di evacuazione delle popolazioni più direttamente minacciate, che verrebbero ad accrescere la folla dei rifugiati, anche al di fuori dei confini ucraini. Rifugiati che questa guerra ha già creato, sin dai primi giorni di combattimento, in numero eccezionalmente alto, se si compara a quello di altri conflitti recenti. E che si spiega probabilmente col carattere inevitabilmente fratricida, e da entrambe le parti previsto come tale, data la lunghissima convivenza dei due popoli nella stessa patria e sotto la stessa bandiera.
Ma è difficile valutare quanto una scelta difensiva di questo genere possa diventare applicabile all’intera Ucraina. E se l’abbandono forzato delle proprie case non sia destinato a determinare disagi e sconvolgimenti anche più gravi di quelli attuali nella vita della popolazione, rendendo così più forti la rabbia e l’aspirazione a mettere fine agli scontri e alle conseguenze politiche di questa aspirazione.
Oppure quanto invece diventi probabile una scelta del presidente ucraino e dei suoi stretti consiglieri occidentali, a favore di una risposta militare di diversa natura e maggiore potenza. Trasformando così in realtà le oscure previsioni di un’ulteriore escalation che sono state avanzate dal Cancelliere tedesco.
Giuseppe Sacco