Il progetto di unità politica del vecchio continente è sorto nella mente e nel cuore di Schuman, De Gasperi, Adenauer dopo che due guerre mondiali, combattute  sul suo suolo, nel breve arco temporale di soli trent’anni, lo avevano inzuppato di sangue.

L’ Europa nasce, dunque, per un ideale di pace, cioè ricercando un’ intesa strutturata e stabile tra le nazioni che la compongono, ma, nel contempo, guardando oltre i propri confini. Assumendo, cioè, la pace come compito, cifra ineludibile della propria ragion d’essere, intesa non come aspirazione nobile quanto generica, ma piuttosto quale compito di cui la politica e’ realisticamente chiamata a farsi carico, nel più vasto contesto internazionale

Questa disposizione  ad “andare oltre” – verrebbe da dire la  capacità di incarnare nella faticosa storia di tutti i giorni l’attitudine a “trascendere” il momento contingente, per inquadrarlo in un orizzonte più vasto che ne rimandi il senso compiuto – è un tratto genetico costitutivo del progetto politico che chiamiamo Europa.

Le difficoltà del cammino di unificazione politica di cui oggi soffriamo sono dovute ad una nefasta spirale centripeta, che, da troppo tempo, la induce a rattrappirsi su sé stessa. Come se la sua millenaria e gloriosa storia fosse diventata un peso eccessivo da reggere, una remora ed un freno, un’ eredità ingombrante, una responsabilità troppo onerosa, anziché motivo e costante sollecitazione a ricercare nuove opportunità di affermazione e di sviluppo della sua vocazione originaria, nel solco di quel  “valore umano” che accomuna la pluralità di culture e di orientamenti ideali che concorrono a darle forma.

Può acquisire nuovo slancio, riaccendere gli spiriti vitali, le speranze e le attese, forse perfino l’entusiasmo delle giovani generazioni, solo se riscopre quel tratto genetico originario che le dia conto e coscienza di sé. Del resto, oggi l’Europa, soprattutto se guarda ad  Est dei propri confini, non è forse un “bastione democratico” circondato da regimi autocratici, da quello russo a quello cinese, fino alle attese di un risorgente “impero ottomano”, che in qualche modo l’assediano? 

Non deve forse difendere ed attestare il valore perenne  dell’ ordinamento democratico e, nel contempo, sperimentarne forme adatte ad affrontare i tempi nuovi che incombono ? E’ in questo quadro che dobbiamo ragionare attorno a quello che, per ora, in attesa di una miglior definizione, potremmo chiamare l’ “aggregato euro-africano”.

L’ Europa ha un debito nei confronti dell’Africa ed è tenuta ad onorarlo, in qualche modo adottandola. Non  certo prendendola per mano, nel segno di un neo-colonialismo “soft”, bensì riconoscendone la specificità originaria, in un rapporto paritario di scambio e di cooperazione, di valorizzazione incrociata e reciproca delle rispettive risorse, anzitutto umane e culturali.

Non possiamo impunemente  lasciare l’ Africa esposta all’ invadenza o alla lusinghe dei cinesi, piuttosto che dei turchi o di Putin.  Non lo merita l’Africa e neppure a noi conviene. Del resto, la stagnazione demografica dei Paesi europei, a cominciare dal nostro, rischia – soprattutto a fronte dell’ impetuosa crescita della popolazione africana – di trasformarci in una sorta di “parco delle rimembranze” o nello  splendido museo a cielo aperto di un’Europa stanca e rassegnata.

Mai come oggi, per contro, il nome di  “Medi-terraneo” dice espressamente la funzione storica e l’identità propria del “Mare Nostrum”, che si distende come un’immensa “agora’” tra noi, l’Africa e la propaggine asiatica di quel Medio Oriente, che, a due passi da casa nostra, continua ad essere il  luogo elettivo  delle tensioni e dei conflitti che rappresentano il punto sensibile della politica e delle relazioni internazionali.

“Mare Nostrum”, dunque, non più secondo il disegno di  possesso esclusivo che Roma rivendicava a sé, bensì nel senso di una effettiva condivisione tra le sue sponde su cui si affacciano tre continenti.

Come se lo immaginassimo, piuttosto, come un grande lago intercluso nelle terre emerse di questo spicchio di mondo che, da un Polo all’altro, disegna una linea di continuità Nord-Sud che va esplorata a fondo e, via via, privilegiata o almeno accostata  alla dinamica Est-Ovest che ha dominato la nostra storia più recente e tuttora la contrassegna.

All’Italia compete il compito di ricordare ai nostri partner ed ai Paesi del Nord l’ ammonimento del Presidente Moro, secondo cui “tutto il Mediterraneo è in Europa perché tutta l’Europa è nel Mediterraneo”. Lì dove sono nate le civiltà più antiche senza le quali l’Europa, come la conosciamo oggi, non esisterebbe. A cominciare da Atene e da Roma.

A Gerusalemme – ce lo ricordano gli Atti degli Apostoli – si incontravano Giudei e Galilei, nonché  “Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della  Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicine a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proseliti, Cretesi e Arabi….”

Il Mediterraneo, dunque,  come l’immensa piazza verso  cui genti di ogni dove si sono dirette e si sono incontrate, a riprova del fatto  che quando popoli diversi si scambiano e reciprocamente fecondano i loro costumi e le loro culture, sempre l’umanità matura  un accrescimento di civiltà ed una più chiara consapevolezza  di sé.

Non a caso la storia si ripete ed i migranti che dalla Libia o dalle coste tunisine  giungono a Lampedusa, il popolo dei barconi che non teme di mette in gioco la propria vita pur di rivendicare la propria dignità, non è che l’avanguardia di un più vasto ed ampio processo che fin d’ora allude alla progressiva creazione di società multietniche.

Come se l’umanità si stesse avvicinando – attraverso un cammino forse addirittura secolare e secondo forme oggi non immaginabili – ad una soglia critica di maturazione e di accrescimento,  quasi stesse programmando un salto evolutivo quale pochi altri ha conosciuto nell’intero decorso della sua storia.

Domenico Galbiati

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