Jannik Sinner è il primo italiano ad aver vinto il torneo di Wimbledon dal 1887. La stampa mondiale, oltre alle genialità tennistiche, celebra giustamente anche le sue doti umane, caratteriali. Schivo e allo stesso tempo socievole, coraggioso e combattivo, rispettoso, senza eccessi, mai iperbolico. Non veste alla moda, non si attornia di soubrette, vive la riservatezza delle sue relazioni affettive, non reagisce agli insulti del The Sun di Londra, celebra le proprie vittorie con il costante ringraziamento a chi gli è più vicino, il team delle persone che lavorano con lui e i suoi famigliari. Non ho mai dimenticato il ringraziamento pubblico rivolto al padre, cuoco del Rifugio Fondovalle in Val Fiscalina, per non averlo mai osteggiato in tutte le sue scelte di vita.
La saggezza semplice di tante sue esternazioni invia un messaggio molto forte, più di tante pedagogie sul cosiddetto disagio giovanile. Jannik riassume le ragioni del suo successo in due parole: lavoro e famiglia. Una missiva apparentemente stantia, fuori moda, superata dalla sociologia contemporanea e dalla spettacolarità ludica della vita moderna che, tuttavia, nella testa del Re di Wimbledon sta alla base dei propri successi personali.
Come definire le convinzioni di Jannik? Anticonformiste? Negatrici della modernità? Superate? Non c’è niente di antagonistico nelle sue convinzioni, che esprimono semplicemente la robustezza degli insegnamenti ricevuti. Inconsapevolmente le certezze di Sinner stimolano anche riflessioni di carattere più generale. La crisi della famiglia è forse il centro dell’inquietudine delle nuove generazioni?
In realtà, la famiglia non è importante solo come fenomeno sociale, quanto piuttosto come fenomeno culturale. Mi spiego meglio. L’Alto Adige dov’è vissuto Jannik si fonda ancora oggi su consuetudini di convivenza storiche e socio-antropologiche legate al maso chiuso. Si tratta di tradizioni locali e diritti storici, improntati “al mantenimento della compagine familiare e all’esistenza di una sana classe rurale”, come si legge in una recente sentenza della Corte Costituzionale (n.193/2017). Mentre nella concezione liberale dominano i diritti individuali, il maso chiuso sovrintende alla gestione del territorio ispirandosi a concezioni non esasperate dei diritti e dei doveri che, privilegiando il gruppo, la famiglia e l’ordine comunitario, esprimono “una antropologia decisamente anti-individualista” (Paolo Grossi).
Nel maso chiuso il singolo gode di un’identità che gli deriva dalla famiglia e dall’appartenenza a un pezzo di montagna, secondo la tradizione rurale. In questo contesto la sua vita non è pensabile fuori della nicchia della comunità. Idee antiche, romantiche, da dimenticare? Nel caso del campione di Wimbledon sono, come da lui stesso riconosciuto, il fondamento del suo carattere vincente.
Guido Guidi