Fino qualche mese fa la prospettiva di una rapida ripresa post-pandemica dell’economia mondiale sembrava fondata sulle solide certezze rappresentate dalla spinta propulsiva indotta dall’applicazione delle innovazioni tecnologiche rivolte a digitalizzare e rendere sostenibile lo sviluppo delle organizzazioni produttive, e dal concorso attivo degli Stati e delle Autorità finanziarie nel sostenere la transizione economica. L’aumento dei prezzi dei combustibili fossili e delle materie prime, le criticità logistiche e la carenza di forniture sono state interpretate come una conferma delle potenzialità della ripresa in atto e destinate a esaurire gli effetti nel breve periodo grazie al completo ripristino delle filiere produttive a livello globale.

La guerra in Ucraina ha trasformato le certezze in illusioni. I mass media sono dominati dalle riletture del recente passato che mettono in rilievo la sottovalutazione delle tensioni internazionali e degli indicatori economici che segnalavano l’esaurimento del ciclo dell’espansione dell’apertura dei mercati avviata con gli accordi della Wto nella seconda parte degli anni ’90 dello scorso secolo. Diventata imponente con l’avvento di internet, e che ha triplicato il valore del prodotto mondiale e la quota degli interscambi commerciali nel corso degli anni Duemila. 

Se questa analisi è fondata, ogni comunità nazionale deve seriamente valutare il suo posizionamento nel contesto mutato. E lo devono fare, in particolare, le nazioni democratiche che vengono apertamente sfidate nella loro capacità di rimanere un punto di riferimento per un modello di sviluppo che vuole conciliare le libertà economiche e i diritti individuali e collettivi delle persone.

La scellerata decisione di invadere l’Ucraina ha generato un inedito compattamento del fronte occidentale, ma questa coesione dovrà fare i conti con le conseguenze asimmetriche delle due crisi consecutive sui singoli paesi in termini di costi economici e sociali. Questo metterà a dura prova le alleanze interne e, in via indiretta, la capacità di influenzare la vasta area dei paesi africani, asiatici e sudamericani che rischiano di pagare duramente gli effetti della crisi.

È nell’interesse dell’Italia che la solidarietà costruita sull’onda di eventi internazionali si traduca nella possibilità di consolidare il ruolo delle Istituzioni dell’Ue, e di convogliare in quelle sedi una massa critica di interventi (politica estera, difesa, energia, cooperazione internazionale, innovazione tecnologica, mercato del lavoro) in grado di reggere l’eccezionalità dei cambiamenti. È un percorso che può essere intrapreso in modo pragmatico, con tappe intermedie e senza dover necessariamente aspettare i tempi della complessa procedura di riforma dei Trattati, prendendo spunto dalle decisioni già adottate per la messa in campo dei fondi Next Generation, per la fornitura di armi e per l’accoglienza.

Ma per il nostro amato Paese è arrivato il momento di fare un serio esame di coscienza su come siamo attrezzati nell’affrontare il cambio di fase. La straordinaria ripresa dell’economia del 2021 sta rivelando le sue fragilità. I comparti dell’industria manifatturiera che hanno svolto un ruolo trainante per il recupero dei livelli di attività precedenti la pandemia sono quelli più esposti ai contraccolpi degli aumenti dei costi energetici e dell’interruzione delle filiere produttive. Ma, tutto sommato, continuano a essere le attività produttive più attrezzate nell’affrontare i nuovi cambiamenti. Il basso tasso di investimenti e la produttività stagnante riguardano soprattutto una buona parte dei comparti dei servizi (il 40% del valore aggiunto nazionale e il 65% dell’occupazione) che sono meno esposti alla competizione internazionale. E che rappresentano di conseguenza il principale potenziale di crescita del Pil e dell’occupazione a condizione che questo avvenga elevando la quota degli investimenti e la produttività. Questa lettura smentisce molti luoghi comuni che circolano ancora nel dibattito politico che attribuiscono alla globalizzazione, e ai comportamenti delle imprese che operano nell’ambito internazionale, le cause del sottoutilizzo delle risorse umane nel territorio nazionale mentre tutti gli indicatori mettono in evidenza l’esatto contrario.

Questo potenziale di crescita, in via teorica, non dipende dalla carenza di risorse finanziarie, che risultano superiori alla capacità di spesa per la parte degli investimenti pubblici e largamente al di sotto dei livelli del risparmio accumulato per il finanziamento degli investimenti privati. 

In generale, per le conseguenze del declino demografico e delle mancate riforme del welfare e delle politiche del lavoro, il nostro sistema produttivo risulta privo della spina dorsale rappresentata da un’adeguata massa critica di risorse umane qualificate in ogni ambito. Una recente analisi promossa da Unioncamere segnala la caduta vertiginosa nel corso degli anni 2000 dei numeri del ricambio generazionale imprenditoriale e l’impoverimento della qualità delle nuove imprese che risultano nella quasi totalità concentrate nei comparti dei servizi a basso valore aggiunto. Ma le analoghe considerazioni possono essere fatte per le figure manageriali, le professioni specialistiche, il lavoro autonomo, gli artigiani e gli operai specializzati. La carenza di una massa critica adeguata di risorse umane qualificate deprime la possibilità di sviluppare tecnologie, le organizzazioni del lavoro evolute e la stessa possibilità di attrarre investimenti.

La sostenibilità della nostra crescita economica, e la tenuta della spesa sociale che è destinata ad aumentare per via dell’invecchiamento della popolazione, dipende dall’ampliamento della quota dei quella attiva in età di lavoro. Un obiettivo complicato dalla prevista perdita di oltre tre milioni di persone in età di lavoro entro il 2030 per effetto delle dinamiche demografiche. Ne consegue l’esigenza di adottare politiche finalizzate a rigenerare la popolazione attiva: riportando nel mercato del lavoro un bacino di almeno quattro milioni di persone, giovani e meno giovani, che non studiano e non lavorano; favorendo l’invecchiamento attivo delle persone anziane in alternativa alla sciagurata e insostenibile propensione ad anticipare l’età di pensionamento; riducendo i livelli insostenibili della spesa assistenziale concentrando questi interventi sulle persone fragili e non autosufficienti.

L’idea di rigenerare il tessuto produttivo e sociale della nostra comunità tramite supplementi di interventi statali pilotati da una moltiplicazione degli apparati pubblici, che pervade buona parte del Pnrr, è profondamente sbagliata. Lo testimoniano: le difficoltà dei concorsi emanati per reperire personale qualificato nella pubblica amministrazione; il sostanziale fallimento dei bandi per l’assegnazione delle risorse per gli asili nido; la palese inadeguatezza delle politiche attive basate sul rafforzamento dei servizi pubblici dell’impiego e prive della capacità di coinvolgere in presa diretta le parti sociali e le istituzioni formative e le famiglie per ricostruire delle autentiche comunità territoriali per l’orientamento e la formazione delle risorse umane.

Il futuro della nostra comunità nazionale non dipende da disegni calati dall’alto e tantomeno da supplementi di intermediazione delle risorse da parte dello Stato. Ma dalla rigenerazione dei valori che la contraddistinguono, di premiare coloro che si distinguono per la capacità di valorizzare i talenti e di contribuire in modo attivo alla formazione del bene comune. 

Natale Forlani

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