Pubblichiamo la quarta parte dell’intervento di Alfredo Anzani sulla sanità italiana dedicata alla comunicazione e all’Ospedale e territorio. Dopo la prima ( CLICCA QUI ) d’introduzione, è stata pubblicata quella relativa all’umanizzazione dell’assistenza ( CLICCA QUI ) e la terza sulle questioni etiche e della divaricazione tra medicina e sanità ( CLICCA QUI ). Il contributo di Anzani è articolato con il seguente schema:

  • Premessa
  • Introduzione
  • Itinerari educativi:
    • La responsabilità sociale in ambito sanitario
    • La bioetica
    • La comunicazione
    • Ospedale e territorio
    • I medici di famiglia
    • Esempi di medicina territoriale

LA COMUNICAZIONE

“Chi parla una lingua che nessuno conosce, non parla.
Parlare significa parlare a qualcuno.
La parola sarà quella che colloca la cosa davanti gli occhi dell’altro a cui parla”.

(H.G. Gadamer)

Saper parlare:
impiego corretto del lessico e della sintassi della lingua.

Saper comunicare:
abilità nell’uso delle parole giuste per far conoscere le proprie idee e interpretare quelle dell’interlocutore.

 Comunicare viene dal latino  communicare:   cum = insieme;  munus = dono, missione. Condividere con gli altri un regalo, un privilegio, una funzione.
L’arte del parlare (ars dicendi)[1] ha il triplice compito di:

  •               – affascinare (delectare),
    – insegnare (docere),
    – mobilitare le coscienze (movere).
  • Comunicare non è informare.
    L’altro ha in potenza tutto il sapere.
    L’altro è attivo.
    L’altro coopera a un processo comune.
    L’altro ricorda ciò che sa (dice: «Ho capito»).
    Comunicare è pregnante, difficile per i presupposti menzionati.

Cum = indica qualcosa di vasto, non solo fra me e te.

Munus = io mi dono in questo rapporto; suppongo l’anima di chi  riceve il mio dono.

La comunicazione è donativa. Anche chi riceve dona. Più si dona, più ci si sente ricco. Per elaborare la propria parola, si deve ascoltare. Il linguaggio nasce dall’ascolto.

 Il proprio comunicare si radica nell’ascoltare l’altro: sono nato ascoltante, non parlante, pur avendo innata la capacità di parlare. Mia madre ha risvegliato la mia capacità di parlare.

Come tutto questo diventerà «ethos»? Quando diventerà qualcosa di istintivo.
L’ethos non si insegna.  Non impari l’ethos. Deve diventare forma di vita.

Ethos è la disposizione di carattere, il modo di vivere. Considerato nell’insieme è la somma di abitudini e di vissuti in un dato momento storico. Cambia in rapporto a epoche e contesti. Noi determiniamo il corso, secondo orientamenti conservativi o spinte trasformative. L’agire di ognuno di noi fa evolvere o regredire l’ethos.  Siamo noi che seminiamo affettività, relazioni, sapere, speranza, o alimentiamo disaffezioni, distanze, respingimenti, chiusure, discriminazioni. Noi creiamo clima culturale e spirito del tempo.

“Il paziente percepisce se il medico lo ascolta o se mentre ce l’ha di fronte pensa qualcos’altro, o, peggio ancora, si infuria e ha fretta di andare a fare qualche altra cosa. Questo è un errore madornale, al di là del fatto che è il primo elemento che poi può portare all’errore medico: stabilisce subito un cattivo, un pessimo rapporto tra il professionista (il medico) e il paziente. Nel processo di formazione questo resta elemento fondamentale”. (Ranuccio Nuti, prorettore  dell’Università di Pisa)[2] 

La corretta comunicazione passa attraverso un corretto rapporto medico-paziente che, oggi, ha acquisito una nuova dimensione. Il motivo va ricercato nel fatto che il paziente ha preso coscienza di essere cittadino  soggetto di diritti, in una società che, in ossequio ai principi costituzionali, intende crescere in una visione di giustizia e di solidarietà. Per questo il cittadino-paziente desidera profondamente il riconoscimento della propria peculiarità e desidera essere informato: vuole  la verità per tutto ciò che riguarda lo stato e la cura della sua salute. Una riflessione corretta e accurata su questo argomento non può fare a meno di essere caratterizzata da una forte valenza etica.

In un contesto sociale condizionato da mentalità tecnicistiche, quale il nostro in cui viviamo, si affaccia l’utopia di una medicina senza medico: oggi si possono ipotizzare diagnosi computerizzate seguite da prescrizioni automatiche.

 “La convinzione che la “macchina” capisca di più si è così diffusa nell’opinione pubblica che non v’è paziente il quale non chieda di fare esami per vedere se qualcosa non va. Di conseguenza, il medico, per individuare l’origine dei mali di un soggetto, quasi sempre trascura la sua ‘dimensione storica’ (la sua personalità psico-affettiva, il suo ambiente, il suo lavoro), quindi il dialogo e anche l’esame diretto, così ricco di elementi essenziali, per privilegiare il laboratorio, lo strumento”.  (Beretta Anguissola) [3]

Il contatto umano tende sempre più a ridursi e il paziente si ritrova a dialogare con équipes di medici specialisti; ciò lo rende insicuro, incapace di ritrovare in se stesso e in tutto ciò che lo circonda un’unità in grado di spiegargli ciò che gli sta succedendo.

In realtà il rapporto umano fra medico e paziente non può essere sostituito da alcuna tecnologia, anche la più sofisticata perché esso nasce, come scrive Pedro Lain Entralgo,[4]dal legame che si stabilisce tra di essi per il fatto di essersi incontrati, l’uno come malato, l’altro come medico; la natura propria di tale legame dipende anzitutto dallo stato di necessità dell’uno e dalla capacità di aiuto tecnico che possiede l’altro”.

Secondo Entralgo, nella realtà unitaria del rapporto medico va sottolineato, in particolare, l’aspetto umano. Soffermandosi su questo aspetto egli fa notare che il comportamento usuale oscilla fra il cosiddetto rapporto oggettivante e quello interpersonale.

Il rapporto oggettivante si stabilisce quando uno dei due soggetti coinvolti cerca di trasformare l’altro in un puro oggetto, privandolo della propria libertà personale, riducendolo a semplice cosa. L’altro diventa così spettacolo (curiosità scientifica, interesse professionale) e strumento (occasione di essere modificato, utilizzato) con possibilità di essere trattato sia con atteggiamenti di amore che di odio (contemplazione amorosa, contemplazione ostile, manipolazione amorosa, manipolazione ostile). Quando il rapporto oggettivante viene messo in atto, l’altro non viene trattato da soggetto, ma da oggetto; non viene trattato secondo ciò che egli è in se stesso e cioè nella sua soggettività di persona umana.

Quando invece  l’altro è trattato nel rispetto della sua persona, si realizza un rapporto interpersonale valido.  Si tratta, insomma, di un incontro fra due persone.

Quando il medico si rivolge al malato e ne ha cura, cosa cura?

Se lo  domanda il filosofo Massimo Cacciari[5], e annota: Egli è chiamato a pensare a un tutto superiore alla parte e all’insieme della parti. È possibile curare senza pensare alla dimensione invisibile che supera la parte, l’insieme delle parti? L’insieme delle parti è qualcosa che le uniforma tutte. Che cos’è? È soffio, vento, anima, psiche, respiro, non riducibile alla parte né alla somma delle parti. È possibile curare senza riferirsi a tale sovrasensibile? Occorre dialogare col paziente da paziente. Insieme cercare la firmitas che ci manca. Bello e sano non sono “stati”, sono ricerca contro ogni dogmatismo del bello e del sano. Non si è sani né belli. Si è in cammino per raggiungere, conoscere il senso del bello e del sano. Occorre “cogitare” che significa “agitarsi”, altrimenti il medico è solo un meccanico.  Curare l’anima significa rispondere all’interrogativo: chi sono?  È un compito che avviene nell’angustia: devo aprirmi, ferendomi. Non si può curare l’anima senza ferirsi. Mi conosco se mi conosco nel volto dell’altro. Se non ho questo pathos non posso avere cura del pathos altrui. Se il vivente non sente il vivente come potrà averne cura? Bello e sano non sono “stati” ma dinamiche. È un impulso, una nostalgia di bellezza, di salute. Il medico deve tener viva questa nostalgia. Non si dà cura se non si fa riferimento all’anima: c’è un tutto superiore alle parti. Ci si imbatte in qualcosa di indefinibile e dobbiamo averne cura. Aver cura significa aver misericordia e cioè essere capaci di “scardinarsi”, di scardinare il proprio cuore di fronte all’ultimo. Fare fatica, avere angustia, angoscia nei confronti del prossimo. Così il bello diventa sentire uno spasmo al cuore per il sovrasensibile. Bello è avere cura dell’anima curando il corpo: la cosa più difficile. Il prossimo del medico è il più lontano. Lì, nel più lontano urge avere il senso del bello, della salute che diventa ricerca. Chi ricerca se non il più lontano? La lontananza è quella del più prossimo. Da qui: ascoltare. La tecnica medica si accompagna all’ascolto, alla riflessione.

 Dire la verità

 Il problema del “dire la verità” al  malato che versa in un grave stato di malattia  costituisce uno scoglio non indifferente. Infatti l’informazione veritiera sullo stato della malattia comporta, a volte, il pre-annuncio dell’esito infausto della stessa.

È in grado il paziente affetto da un grave male di accettare la propria malattia che, forse, potrà sfociare nella morte?  Che cosa rappresenta, oggi, la morte? Come si muore?

Interrogativi, questi, complessi e difficili che si vorrebbe facilmente rimuovere. Eppure, diventa fondamentale, nel contesto del problema dell’informazione, affrontare anche l’aspetto del saper morire.

Diversi sono i criteri etici che possono guidare l’azione del medico a cui il malato si affida.

Il primo criterio etico è il seguente: il malato ha diritto a sapere la verità.  “La verità è il principio della morale e il riconoscimento della verità è il sommo genere dei doveri e l’atto proprio ed essenziale della moralità”, scrive Antonio Rosmini nei “Principi della Morale”.

La verità è un diritto-dovere del malato, perché è in gioco la sua persona. È il malato che si rivolge al medico:

  • per conoscere se stesso attraverso la sua malattia (diagnosi);
  • per conoscere ciò che il medico farà su di lui (terapia);
  • per conoscere il suo futuro (prognosi).

Il paziente dovrebbe vivere la malattia come  sua verità storica; e, simmetricamente, per il medico che se ne prende cura (dell’uomo, non semplicemente del morbo), curare significa decifrare il senso (cioè saper leggere in modo umano) di questa verità storica. Fino all’estremo quesito: è un assurdo? Ha uno sbocco? E quale?

Si dice comunemente che la medicina mira a liberare l’uomo dalla malattia. In realtà il compito fondamentale, di fronte alla malattia, è quello di  liberare la malattia, di riconoscerla cioè, e quindi assumerla, quale esperienza che provoca una determinazione della libertà.

Se la verità è il criterio fondamentale che indirizza il comportamento etico, occorrerà evitare la menzogna eretta a sistema. Essa non è utile al paziente, e lede specificatamente le ragioni del suo diritto alla conoscenza.

Ma occorre non dimenticare che il diritto alla comunicazione della verità non è incondizionato. Lo ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica: “[…] nelle situazioni concrete (occorre) che si vagli se sia opportuno o no rivelare la verità a chi la domanda”  (n.2488). “La carità e il rispetto della verità devono suggerire la risposta ad ogni richiesta di informazione o di comunicazione. Il bene e la sicurezza altrui, il rispetto della vita privata, il bene comune sono motivi sufficienti per tacere ciò che è opportuno non sia conosciuto, oppure per usare un linguaggio discreto […]. Nessuno è tenuto a palesare la verità a chi non ha il diritto di conoscerla”. (n.2489)

La comunicazione nella struttura sanitaria

  •  È un processo trasversale che può essere considerato una vera leva strategica a disposizione del management.[6]
  • Agisce direttamente sui processi di percezione dei servizi da parte dell’utenza e rappresenta una risorsa interna capace di creare sinergia tra gli operatori e senso di appartenenza alla stessa struttura.
  • Favorisce il realizzarsi di energie sul territorio in termini di dialogo inter-istituzionale con le differenti parti del tessuto sociale.
  • Assume un ruolo centrale per l’agire amministrativo, come strumento di governo della complessità sociale e della complessità organizzativa.
  • È un elemento strategico[7] che favorisce opportune trasformazioni sia nei modelli organizzativi sia nelle modalità di lavoro e di prestazione nelle strutture sanitarie.

Una comunicazione efficace permette a ognuno di sapere come comportarsi mentre, se inadeguata, causa conflitti e sprechi di tempo e risorse. Acquisire e rinforzare le competenze comunicative si traduce immediatamente in un beneficio per gli stessi medici e operatori sanitari, per i familiari e soprattutto per i pazienti.

Comunicare all’interno della struttura sanitaria è un compito da realizzare con impegno e consapevolezza soprattutto se associato alle finalità e alle strategie che la struttura persegue.

Non basta scrivere o parlare per comunicare: la comunicazione avviene quando è compresa da tutti, diventando patrimonio comune e contribuendo alla costruzione di una relazione, di un sapere, di una cultura.

  1. OSPEDALE E TERRITORIO

  Due realta’ d’impatto sociale e d’integrazione.

  • Le dimissioni del paziente
  • I rapporti con il territorio
  • Gli obiettivi futuri
  1. Le dimissioni del paziente

 Quando il paziente ha terminato il suo iter diagnostico e terapeutico all’interno della struttura ospedaliera viene dimesso e così, nella stragrande maggioranza dei casi, egli può ritornare al proprio domicilio e riprendere la sua vita quotidiana normale.

Le dimissioni sono accompagnate da una relazione scritta indirizzata al medico curante contenente le principali informazioni riguardanti il soggiorno in ospedale:

  • il motivo del ricovero,
  • gli accertamenti clinico-diagnostico-strumentali effettuati,
  • gli atti terapeutici instaurati (medici e/o chirurgici),
  • i suggerimenti e i consigli per il prosieguo delle cure.

Poiché la lettera di dimissione è indirizzata al medico curante, emerge con chiarezza che il rapporto avviene fra lui e il medico ospedaliero. Questo rapporto non può e non deve essere  solo di natura burocratica e formale. La lettera deve essere uno strumento, ovviamente insieme ad altri, del dialogo indispensabile che si va creando fra i due professionisti dal momento in cui il malato che si è affidato al primo viene invitato a proseguire le cure presso l’altro, ma sempre in un’unica visione di intenti.

I consulenti della Joint Commission International affermano la necessità che all’atto della dimissione o del rinvio ad altra struttura assistenziale, il paziente, e laddove opportuno i suoi familiari, riceva istruzioni comprensibili riguardo al follow-up. Tali istruzioni  devono essere comprese dai pazienti e dai familiari, mettendo in atto, se necessario, il superamento delle barriere linguistiche.  Nella lettera di dimissione, insiste la Joint Commission, deve essere esplicitamente inserita la voce “condizioni del paziente alla dimissione”. Tali condizioni devono essere il risultato di tutte le rivalutazioni svolte durante tutte le fasi della cura.

Non tutti i pazienti, al momento della dimissione dall’ospedale, si trovano nella medesima ed unica condizione. Il principio di giustizia richiede di riconoscere le variegate situazioni e, di conseguenza, di non adottare criteri uguali fra disuguali.

Si possono all’atto delle dimissioni, secondo una visione schematica, individuare almeno quattro diverse tipologie di ammalati:

  • paziente guarito. Non necessita di alcun ulteriore provvedimento né diagnostico né terapeutico. Non sussistono problemi;
  • paziente affetto da una malattia cronica. Può proseguire a domicilio le terapie mediche suggerite nella relazione scritta al medico curante con programmati controlli periodici presso gli ambulatori specialistici o dell’ospedale o del territorio;
  • paziente affetto da una malattia cronica invalidante. Se vive con familiari che possono accudirlo, proseguirà a domicilio le cure previste. Nel caso in cui i familiari avessero dei problemi per l’assistenza ovvero il paziente fosse solo senza alcun parente, si pone il problema o dell’assistenza a domicilio, se fattibile, o di un ricovero in una struttura protetta;
  • malato terminale (il cosiddetto «moriente») considerando i diritti della Carta dei diritti del malato: «Ogni cittadino, anche se condannato dalla sua malattia, ha diritto a trascorrere l’ultimo periodo di vita conservando la sua dignità, soffrendo il meno possibile e ricevendo attenzione e assistenza». E quindi anche presso il proprio domicilio, soprattutto se questo era il suo desiderio, se il ricovero non è più necessario ed è possibile somministrare cure e terapia in casa del malato, previo accordi con il medico di famiglia.

Ciò che va salvaguardato, anche quando il paziente lascia l’ospedale, è il concetto della centralità della sua persona. Il malato continua ad essere, deve continuare ad essere il perno su cui centrare tutta l’assistenza di cui ha bisogno.

E fra i malati, i più deboli e i più indifesi, sono quelli che devono essere più degli altri protetti. Per gli anziani soli, i pazienti con elevata morbilità, i pazienti con esiti invalidanti di eventi acuti,  può essere  attuata la cosiddetta “dimissione protetta o concordata”.

Si tratta di una modalità di dimissione nella quale il bisogno assistenziale del paziente viene analizzato ed esplicitato in ambito ospedaliero e trasmesso agli operatori del territorio. A questo livello viene verificata la compatibilità del bisogno assistenziale con le risorse disponibili, definendo con il paziente e la sua famiglia la modalità di intervento più opportuna.

Questa reciproca collaborazione porterà sicuramente un vantaggio. Si pensi, ad esempio, alla riduzione dei tempi di ricovero nei casi in cui il prolungamento della degenza sia determinato da sole necessità assistenziali.

Questo progetto si fonda su molteplici presupposti di ordine culturale, organizzativo ed operativo, quali:

  • la realizzazione di un rapporto collaborativo-formativo fra operatori ospedalieri ed operatori dei servizi territoriali;
  • l’adozione di una modalità operativa di coordinamento ed integrazione;
  • l’utilizzo di strumenti di valutazione multidimensionale;
  • la conoscenza delle risorse disponibili per l’assistenza a soggetti fragili;
  • l’acquisizione di una mentalità multidimensionale intesa come approccio metodologico globale, con particolare attenzione allo sviluppo delle potenzialità residue del paziente.
  1. I rapporti con il territorio

Il collegamento fra l’ospedale e il territorio può costituire un supporto importante per raggiungere una maggiore umanizzazione dell’ospedale.

Questo aspetto va messo in evidenza in una prospettiva che sottolinea la prevalenza del momento preventivo rispetto al momento curativo e in un contesto organizzativo che fa dell’ospedale uno dei centri della rete assistenziale non più caratterizzato dalla degenza, ma dall’elevato livello delle prestazioni specialistiche.

È certo che questo modello ha bisogno di una rete diffusa a supporto della cura della fase acuta della malattia, affidata all’ospedale, e che tale modello è oggi più probabilmente al suo avvio e non è ancora né avanzato né tanto meno compiuto. Si tratta tuttavia di un modello che va perseguito e costruito pazientemente e sapientemente perché, al di là delle logiche di risparmio economico sottese, esso può contribuire all’umanizzazione delle cure, a garantire sicurezza e serenità al malato, a reperire nuove risorse per la ricerca e la cura di malattie gravi, a condizione che esso venga perfezionato e attuato in tutte le sue parti con il conseguimento degli scopi prefissati[8].

I principali attori nel far vivere, incrementare e migliorare il rapporto ospedale-territorio sono i Medici di Medicina Generale ed i Pediatri di Famiglia, ai quali si potrebbe aggiungere anche una nuova figura, quella del Geriatra di Famiglia, insieme ad un ritrovato nuovo ruolo per l’Infermiere che entra di diritto nel team terapeutico familiare, in dialogo con gli operatori sanitari dell’ospedale.

Essi costituiscono (sta scritto nel Manuale per la formazione dei Medici di Medicina Generale e dei Pediatri di Famiglia, edito dal Ministero della Salute Dipartimento della Qualità Direzione Generale della Programmazione Sanitaria, dei Livelli di Assistenza e dei Principi Etici di Sistema Ufficio III)   il primo contatto della persona, della famiglia e della comunità con il Sistema Sanitario Nazionale e rappresentano un riferimento importante:

  • per le scelte relative ai servizi sanitari,
  • per l’educazione a stili di vita salutari,
  • per l’adozione di comportamenti appropriati in situazioni di malattia e riabilitazione.

I mutamenti demografici e sociali pongono il tema dell’integrazione e della continuità assistenziale al centro delle politiche sanitarie.

L’integrazione interdisciplinare, interprofessionale e intersettoriale rappresenta un valore ampiamente condiviso che va realizzato con uno sforzo congiunto di tutti gli attori del sistema.

La continuità assistenziale[9] diventa dunque un elemento imprescindibile dell’assistenza sanitaria e si pone come fattore di equilibrio tra l’assistenza ospedaliera e quella territoriale: quanto più l’assistenza sanitaria si avvicina a comprendere ed intervenire sul reale problema del paziente, tanto più il suo uso sarà appropriato, efficace, efficiente e sicuro. In tale prospettiva è necessario promuovere in ogni ambito il miglioramento della qualità e la sicurezza delle cure al fine di ridurre il rischio di incorrere in danni conseguenti al trattamento e ottimizzare le risorse disponibili.

Diventa quindi fondamentale valorizzare le competenze di tutti i professionisti e sensibilizzarli alla problematica della sicurezza dei pazienti sul territorio per la condivisione e attuazione di strategie di prevenzione.

 Nel concetto di rete assistenziale, nel quale l’uomo come persona continua ad essere il centro portante, il rapporto ospedale-territorio costituisce un asse indispensabile.

Accettata questa affermazione, si impone l’esigenza di verificare che questo rapporto si instauri, viva, dia frutti.

Proprio perché l’orientamento odierno dei legislatori e degli amministratori pubblici è quello di considerare l’ospedale quale luogo di intervento specialistico per i pazienti che versano nello stato di acuzie, è conseguenza naturale prevedere e provvedere al potenziamento dei servizi territoriali.

La rete assistenziale domiciliare non deve essere meramente orientata alle cure palliative per i pazienti terminali o ad una attenzione per i non autosufficienti, ma in una visione globale deve tendere a garantire la continuità assistenziale.

 Anche il ruolo della famiglia va riconsiderato e rivalorizzato.

La famiglia non può essere considerata sempre e comunque come una “risorsa” sulla quale lo Stato possa contare. Soprattutto di fronte a pazienti deboli e fragili facenti parte di famiglie altrettanto deboli e fragili occorre mettere in atto non solo incentivi di carattere economico, ma una politica veramente umana che, volendo sostenere la famiglia, offra servizi socio-educativi in grado di dare un competente ascolto, un valido accompagnamento e sostegno, interventi integrativi e/o sostitutivi.

È qui che l’aspetto sociale si accompagna a quello sanitario. La visione centrale dell’uomo persona ritorna costantemente a ricordarci che l’uomo non è solo un insieme di organi, non è solo un corpo da guarire ma è un tutt’uno di corpo, psiche e spirito.

Altrettanto valido ed utile è il ruolo svolto dalle associazioni di volontariato che hanno come scopo primario l’assistenza domiciliare.

I vari operatori si alleano allora per garantire la continuità del servizio a favore dell’ammalato. Medici specialisti ospedalieri, medici curanti di famiglia, infermieri, assistenti sociali, operatori socioeducativi, volontari, tutti devono co-educarsi e formarsi per offrire la risposta corretta e giusta.

I mezzi e i sistemi esistono e sono già stati ampiamente collaudati: incontri, seminari,  tavole rotonde, questionari, inchieste, analisi, proposte, provvedimenti, attuazioni. Perché tutto possa essere fruttuoso è necessario possedere un’anima, una sensibilità, un desiderio, un amore.

Così l’ospedale è aperto e si apre costantemente al territorio: il paziente, i suoi familiari, il suo medico curante divengono i protagonisti insieme ai medici dell’ospedale per coordinare tutto ciò, che previsto nel piano di cura, si concretizza poi innanzitutto in risposte positive per il paziente stesso.

  1. Gli obiettivi futuri

Sono quelli sostenuti da una visione culturale che – facendo perno sulla insostituibile centralità dell’uomo come persona – sostiene, controlla e verifica che il percorso desiderato, disegnato e voluto da chi ha autorità in materia venga realizzato.

Essi possono essere così sintetizzati:

  • dare un reale potere decisionale alle competenze che si trovano al servizio della solidarietà;
  • responsabilizzare ciascuno nel proprio ruolo: i politici, i dirigenti, gli operatori sanitari tutti, i cittadini;
  • favorire una coscienza etico-sociale del proprio lavoro in tutti i soggetti politici, culturali e sociali “addetti ai lavori”;
  • riconoscere una rete assistenziale (ospedale-territorio) valida che dia continuità e garanzia di cura all’ammalato ovunque egli si possa venire a trovare;
  • rendersi conto che il malato è un “dono” responsabilizzante, non un oggetto per fare “opere di bene”;
  • col malato va stabilito un rapporto paritario: va inteso quindi non semplicemente come persona da assistere, ma come persona con cui intrecciare una comunicazione;
  • il cittadino prima di ammalarsi è spesso una persona “a rischio”; occorre tempestivamente individuare le condizioni di rischio e operare per la prevenzione della malattia in una prospettiva di solidarietà che coinvolga tutte le energie disponibili;
  • utilizzare nella comunicazione fra operatori sanitari (specie fra medici specialisti ospedalieri e medici curanti) tutte le innovazioni tecnologiche che permettano un risparmio di tempo e che consentano di essere informati in tempo reale delle condizioni oggettive in cui versa il malato.

L’auspicio concreto è che l’organizzazione sanitaria relativa alla gestione del territorio provveda quanto prima a dar vita a progetti sperimentali che, partendo dalle premesse sopra descritte, possano realizzare in pieno la continuità assistenziale.

È necessario, allora, ribadire che, a monte degli auspicati cambiamenti strutturali e comportamentali, è richiesto un cambio di rotta da parte della società in cui viviamo, e quindi di noi tutti.

Il consumismo eccessivo, l’edonismo, l’autodeterminazione spinta sino all’inverosimile, il libero arbitrio esasperato  che porta ad esprimersi attraverso il triplice desiderio del “lo voglio, lo posso, lo faccio”,  tutto questo alla fine non paga.

Non è possibile ipotizzare una sanità a misura d’uomo se prima o contemporaneamente non si opera per una famiglia, una scuola, un lavoro, un’economia, un’industria, una politica  a misura d’uomo.

 La modalità con la quale viene gestita la sanità è di fatto lo specchio della società e in essa convivono tutte le contraddizioni che caratterizzano la società stessa.

L’opera da realizzare richiede uomini forti, intelligenti e liberi. ( Segue )

Alfredo Anzani

 

[1] I. Dionigi, www.corriere.it/scuola/ritorno-a-scuola/notizie/ritorno-scuola-ragazzi-studiate-latino-scoprirete-voi-stessi-594f3c96-9727-11e7-8f2d-841610cb6f6e.shtml

[2] R. Nuti, www.omedcr.it/dmdocuments/laprofessione_2-17numero_completo._pdf.pdf

[3] A. Beretta Anguissola, Medicina clinica o paraclinica? Federazione Medica, 5,1992, p.5.

[4] P. Lain Entralgo, Antropologia Medica, Ed. Paoline, 1988, pp.261-264.

[5] M. Cacciari, Saluto inaugurale al Congresso di Chirurgia d’Urgenza, Milano, novembre 2002. Personali liberi appunti presi da una conversazione dell’autore.

[6] www.crob.it/crob-cma/files/docs/12/34/22/DOCUMENT_FILE_123422.pdf

[7] I. Boscardini,  formiche.net/2018/11/strutture-sanitarie-comunicazione/

[8] C.M. Martini, Messaggio per la Festa del Perdono 2001, Ospedale Maggiore di Milano, 26 marzo 2001.

[9] www.targatocn.it/2012/11/10/leggi-notizia/argomenti/salute-e-benessere/articolo/corso-per-condividere-la-sicurezza-del-paziente-in-riabilitazione-lalleanza-mmg-e-fisioterapista.html

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