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Conclusione:  Finora abbiamo seguito quelli che possono definirsi gli indirizzi politici più importanti seguiti dagli Stati Uniti e sopravvissuti fino al XX secolo. Con l’ingresso nel nuovo secolo questi ultimi erano entrati in possesso di una vasta sfera di influenza in America Latina e nei Caraibi ed esercitavano una politica attiva in Asia tramite i loro presidi economici e strategici nel Pacifico. Avevano varato una flotta militare potente ed erano assurti al rango di grande potenza mondiale.

Nel 1904, il presidente Theodore Roosevelt aggiunse un corollario che attribuiva agli Stati Uniti il diritto ed il potere di controllare ogni interferenza da parte di governi stranieri negli affari dell’emisfero occidentale, oltre che assicurarsi che venissero governati da esecutivi graditi a Washington.

Era la politica del cosiddetto “Grosso Bastone” (Big Stick), poi ripudiata dal memorandum Clark, redatto il 17 Dicembre 1928 da J. Reuben Clark, Sottosegretario di Stato del presidente Calvin Coolidge riguardante in America Latina l’uso della forza militare da parte degli Stati Uniti.

Ad essere più precisi, la teoria del “Grosso Bastone” indicava l’azione estera perseguita dal presidente Roosevelt nel corso dei suoi due mandati dal 1901 al 1909. Tale politica, spesso accomunata al concetto più ampio di “diplomazia delle cannoniere”, era caratterizzata da negoziati ai quali si affiancava la minaccia del “grosso bastone”, ossia di un intervento militare. Fortemente pragmatico e basato sul principio della ragion di Stato, il corso politico rooseveltiano fu l’espressione mediata dei circoli espansionistici americani.

Rimasto segreto fino al 1930, il memorandum Clark rigettava invece l’idea che il corollario Roosevelt si basasse sulla dottrina Monroe: piuttosto li separava e li distingueva. Indipendentemente da quest’ultima il memorandum sosteneva che fosse diritto degli Stati Uniti intervenire nelle questioni americane. La Dottrina Monroe si riferiva invece a situazioni che vedevano coinvolte le nazioni europee e non riguardava le dispute tra Washington e gli Stati dell’America Latina.

Gli Stati Uniti al cospetto dell’AsiaSe da un lato è comprensibile l’importanza del sentimento isolazionista riguardo i rapporti con l’Europa, dall’altro è difficile non vedere come fossero diverse le cose con l’Asia. Nel corso del XIX secolo infatti, anche quando gli Americani erano meno disposti verso l’Europa, non pochi furono quelli pronti ad interessarsi e farsi coinvolgere nelle faccende orientali. Spesso si trattava di quelle stesse persone che rifiutavano qualsiasi approccio con le potenze europee.

 A seguito della guerra ispano-americana, gli Stati Uniti iniziarono ad emergere come potenza mondiale e dopo il 1898 si mostrarono più disposti a prendere parte alle questioni internazionali. Mentre continuavano a mostrare poco interesse per l’Europa, si trovarono invece ben più coinvolti nelle vicende dell’America Latina e dell’Estremo Oriente.

 A seguire con più impegno le questioni europee fu il presidente Theodore Roosevelt, che si rendeva conto di quale pericolo potessero rappresentare per la pace mondiale. Non a caso esercitò la sua azione di mediatore nella guerra russo-giapponese, intervenne nella crisi marocchina nel 1905 e svolse un ruolo importante nel riunire la seconda conferenza dell’Aia nel 1907. Le potenze europee sapevano però che agli americani questo suo protagonismo non andava a genio e che il Senato, a più riprese, aveva manifestato il suo intento di non cambiare la tradizionale politica estera del paese.

 A crescere fu invece l’interesse americano per l’Estremo Oriente e soprattutto per la Cina: il mondo degli affari vedeva in questo paese un potenziale mercato dalle solide prospettive di crescita ed era allarmato dalla corsa delle potenze europee per garantirsi concessioni e ritagliarsi sfere di influenza esclusive.

 Nel 1899, John Hay, Segretario di Stato del presidente McKinley, fece pressioni sulle potenze europee per ottenere che le opportunità fossero distribuite equamente a tutte le nazioni. Quando nel 1900 scoppiò in Cina la rivolta nazionalista dei Boxer, pur indicando che non avrebbe abbandonato la sua linea di non interferenza, Washington inviò un corpo di 2.500 uomini per contribuire a riportare l’ordine: Hay temeva che gli europei avrebbero potuto sfruttare questa occasione per aumentare la loro influenza nel paese.

 Il Segretario inviò una lettera nella quale elaborava la politica della cosiddetta “porta aperta”, il cui scopo era conservare l’integrità territoriale cinese ed assicurare ad ogni nazione le stesse opportunità di commercio su tutto il suo territorio. Negli Stati Uniti la pubblicazione di questo testo fu accolta con orgoglio pur non essendovi nessuno disposto all’uso della forza per farlo rispettare: benché questo principio restasse alla base della politica americana in Estremo Oriente, gli Stati Uniti non si mostrarono disponibili ad attuarlo.

 Se l’impero cinese non venne fatto a fette, non fu tanto grazie alla politica della “porta aperta”, quanto piuttosto all’incapacità delle potenze europee di accordarsi sulla spartizione del bottino di guerra.

 Penetrazione occidentale in Cina:   Intorno al 1840, nella loro corsa ad espandersi le potenze europee iniziarono a mettere gli occhi sulla Cina e farsi largo al suo interno. In quegli anni il paese era retto dalla dinastia Manchu ed impegnato a fondo nell’affrontare gravi problemi interni. Benché sempre in prima fila nell’estorcere concessioni, gli europei appoggiavano l’impero per far fronte alle opposizioni interne, tenere in piedi il Paese, firmare trattati e rendere legittime le loro pretese.

 La prima fase dei rapporti con l’Occidente si aprì per la Cina nel 1841. Se da un lato gli europei bramavano acquistare prodotti cinesi, questi ultimi non erano altrettanto interessati a spendere per quelli europei. Il commercio tra i due mondi era dunque difficile perché sostanzialmente a senso unico. Vi era però un solo prodotto per il quale esisteva in Cina una forte domanda: l’oppio.

 Quando il governo cinese tentò di controllarne l’importazione, l’Inghilterra dichiarò guerra. L’impero ne uscì sconfitto, l’oppio entrò in abbondanza e la faccenda si concluse nell’Agosto del 1842 con il trattato di Nanchino. Passati alcuni anni, nel 1857 Francia ed Inghilterra aprirono insieme un altro conflitto con la Cina per costringerla ad accogliere i loro diplomatici e trattare con i loro mercanti e uomini d’affari. E’ nel corso di questa contesa che fu saccheggiato ed incendiato lo splendido Palazzo d’Estate, umiliazione che i Cinesi avvertono ancora oggi. Anche questa volta alle ostilità seguì un trattato, quello di Tientsin del Giugno 1858. Ulteriori trattati furono successivamente firmati sia con altre potenze europee che con gli Stati Uniti.

 Nacque in questo modo il cosiddetto “sistema dei Trattati”, che imponeva alla Cina una serie di restrizioni e concedeva invece agli stranieri un insieme di diritti. Da lì, successivamente, la corsa della Russia e delle potenze europee ad estendere la loro presenza in tutti quei territori confinanti con l’impero che, pur non facendone parte, ne erano però tributari, mantenendovi anche i maggiori rapporti politici e culturali. Riguardo la Cina, gli Stati Uniti attuarono la politica della “Porta Aperta”.

 In questo periodo seguì da parte americana anche l’annessione delle Filippine e tutti questi eventi si svolsero in un tempo nel quale era operativa la chiusura di Washington verso l’Europa. Alcuni anni più tardi, nel 1919, merita di essere ricordato l’aspro dibattito nel Senato sulla penisola dello Shantung e come la presunta svendita della Cina da parte del presidente Wilson avesse avuto sulla scena interna conseguenze altrettanto importanti e difficili quanto le accese discussioni sulla Società delle Nazioni.

 La grande attrazioneQuesti due precedenti paragrafi sono serviti a mostrare quanto, nel corso della storia diplomatica americana, fosse diffusa l’attrazione verso l’Asia e come rimanesse preponderante l’idea del rifiuto dell’Europa. Vi era una vera e propria spinta di dare precedenza all’Asia, spinta che Thoreau espresse molto bene affermando che “mi dirigo verso Oriente solo se costretto, ma verso Occidente vado in piena libertà. Devo muovermi in direzione dell’Oregon e non dell’Europa”.

Concluderò dicendo che all’inizio degli anni Trenta il Segretario di Stato Henry Stimson e il suo successore Cordell Hull si preoccuparono molto più delle azioni giapponesi in Asia che della salita al potere di Hitler in Germania. Aggiungo inoltre che alla fine degli anni ‘40 non era difficile trovare membri del Congresso pronti a venire in soccorso a Chiang Kai-shek e mostrarsi allo stesso tempo contrari al piano Marshall, alla Nato e ad ogni altra forma di assistenza all’Europa.

 Il caso del Giappone:  I primi europei arrivarono in Giappone nel 1542 e per circa un secolo i contatti furono numerosi, in quanto i giapponesi si mostrarono disponibili a commerciare con gli stranieri ed imparare da loro. Alcuni si recarono nelle Indie Olandesi e persino in Europa. Le cose poi cambiarono e poco dopo il 1600 il governo giapponese iniziò una campagna contro i cristiani. Nel 1624 furono espulsi gli Spagnoli, nel 1639 i Portoghesi e nel 1640 tutti gli europei, salvo un manipolo di commercianti olandesi che vennero confinati sotto stretta sorveglianza a Nagasaki. Da quel momento e fino al 1853, questi pochi olandesi rappresentarono l’unico tramite con l’Occidente. Da allora, l’arrivo degli occidentali finì con l’aprire il paese ben più di quello che chiunque si sarebbe aspettato.

 A tal proposito va ricordata la missione navale del commodoro Perry nella baia di Yedo del 1853, il suo sbarco e la richiesta tutto sommato perentoria affinché il governo giapponese si aprisse a rapporti commerciali con gli Stati Uniti e le altre potenze europee. I giapponesi così fecero e nel 1867 scoppiò una rivoluzione le cui conseguenze più importanti furono una celere occidentalizzazione del Paese e delle sue istituzioni.

Il Giappone si era aperto all’Occidente per adottarne scienza, tecnologia, princìpi di organizzazione e usi militari con l’obbiettivo di modernizzarsi sia dal punto di vista industriale che finanziario: non si trattava solo di ammirazione, ma anche e soprattutto un modo per difendersi contro la penetrazione dei paesi occidentali e l’ambizione di diventare a sua volta una grande potenza.

Nel 1854 il commercio estero del Giappone era praticamente nullo. Verso fine secolo era salito a 200 milioni di dollari l’anno e la popolazione era aumentata dai 33 milioni del 1872 ai 46 milioni del 1902. Come nel caso dell’Inghilterra, le isole del Giappone si trovarono costrette a dipendere dai commerci internazionali per permettere alla loro  crescente popolazione quel tipo di vita al quale aspirava.

 Questo ingresso del Giappone nella modernità fu il più notevole esempio di trasformazione mai realizzato da un popolo in un tempo così breve.

 La guerra russo-giapponese e la mediazione americana:   Nel 1895 il Giappone condusse una guerra vittoriosa contro la Cina, i cui frutti però vennero colti dalla Russia. Quest’ultimo, in risposta, firmò nel 1902 un trattato con l’Inghilterra che, a seguito dell’incidente di Fashoda e della guerra boera, si era trovata diplomaticamente isolata ed in continua competizione con la Russia. L’alleanza durò vent’anni, in quanto russi e giapponesi stavano cercando di espandersi a spese del decadente impero cinese: per tutte e tre queste nazioni l’oggetto della disputa era la Manciuria che storicamente apparteneva alla Cina.

Senza prendersi il disturbo di una dichiarazione di guerra, il Giappone condusse un attacco via mare alle installazioni russe di Port Arthur, che cadde nel Gennaio del 1905. I due eserciti si scontrarono poi in Manciuria nella battaglia di Mukden, la più grande mai combattuta fino a quel momento con 624 mila uomini schierati sul campo. Un gran numero di osservatori militari si recarono sul posto anche per capire come si sarebbe potuta svolgere una successiva guerra in Europa.

I Russi furono sconfitti e nel Maggio dello stesso anno la loro flotta baltica, inviata per ristabilire la situazione, fu annientata nella battaglia di Tsushima. Questo disastro militare ebbe come causa immediata la rivoluzione russa del 1905 e fece del Giappone una grande potenza.

All’inizio del conflitto le simpatie degli Stati Uniti erano tutte per il Giappone. Di fronte ai suoi notevoli successi militari gli americani cambiarono però presto idea. Lo stesso presidente Roosevelt non era certo entusiasta di un predominio del Giappone in Asia orientale in quanto era preferibile mantenere una qualche forma di equilibrio tra russi e giapponesi.

Tokyo, in quel momento sull’orlo della bancarotta, si rese disponibile a chiedere la pace e si rivolse a Roosevelt offrendogli di agire come mediatore. Il presidente americano accettò e diede il suo contributo nel negoziare un trattato di pace firmato a Portsmouth nel Settembre 1905. Quest’ultimo incassò il premio Nobel per la Pace, mentre ai giapponesi andò il controllo della Corea, parte della Manciuria meridionale e l’annessione di una porzione dell’isola di Sakhalin. La crescita della potenza e delle ambizioni del Giappone ebbero come conseguenza un graduale deterioramento dei rapporti con Washington.

 Conseguenze del conflitto sugli andamenti successivi:  Anche se con il testo c’entra poco, credo sia di qualche interesse aprire una parentesi per illustrare l’enorme importanza dello scontro tra Russia e Giappone di fronte a quelli che furono i più importanti eventi degli anni successivi e anche di tutto il XX secolo.

 Questa, dopo la guerra franco-prussiana del 1870, fu la prima guerra tra grandi potenze. Fu anche la prima tra paesi industrializzati, così come fu la prima tra nazioni occidentalizzate sorta dalla contesa per il controllo di un paese arretrato. In questo caso, l’espansionismo russo verso Oriente in cerca di uno sbocco sul Pacifico aveva creato tensioni con il Giappone per il controllo della Manciuria e della Corea.

Si è trattato inoltre della prima volta nei tempi moderni che una nazione asiatica aveva sconfitto una potenza occidentale: in meno di mezzo secolo un paese asiatico, in questo caso il Giappone, era riuscito a dimostrare che fosse possibile raggiungere il livello tecnologico e militare delle nazioni più avanzate, imparando a condurre con altrettanta abilità e forza lo stesso gioco degli europei. Questo conflitto distrusse il mito della supremazia militare e tecnologica dell’Occidente.

Le conseguenze furono le seguenti: azzoppato in Asia, l’impero zarista dovette spostare la sua attenzione verso l’area balcanica per diventarne poi protagonista attivo. La cosa ebbe un ruolo nel far nascere in Europa una serie di crisi internazionali che sfociarono in seguito nel primo conflitto mondiale.

L’esito catastrofico di questa guerra nel Pacifico portò ad un indebolimento generale del regime zarista sia in termini militari che di prestigio. Dall’incompetenza del governo e dalla sua disorganizzazione scaturirono un serie di proteste che condussero alla rivoluzione del 1905, preludio della grande rivoluzione russa del 1917 che vide i bolscevichi salire al potere e poi nel 1922 la nascita dell’Unione Sovietica.

La notizia di questa straordinaria vittoria fece aprire gli occhi ai soggetti delle potenze imperiali sul fatto che un popolo arretrato, umiliato e preso a cannonate dagli europei era riuscito in meno di 50 anni a diventare una grande potenza, uguagliandoli in termini di sviluppo industriale, tecnologico e militare.

A partire da questo precedente, ogni popolo soggetto al dominio dell’Occidente d’ora in poi avrebbe potuto trovare un proprio ruolo nella Storia. Era però necessario aprirsi alla modernità, investire in educazione tecnica, ricerca scientifica, progresso tecnologico, organizzazione industriale e burocratica per adottare lo stesso processo di sviluppo dei popoli bianchi, adeguandolo però alla sua cultura ed alle sue tradizioni.

 Nel 1905, nel 1908 e nel 1911 ebbero inizio rispettivamente in Persia, Turchia e Cina delle rivoluzioni nazionaliste. Ne furono contagiate in seguito India ed Indonesia, come successivamente i Paesi del Medio Oriente e dell’Africa. Dopo la Prima Guerra Mondiale questo processo andò intensificandosi in Asia come altrove e fu determinante nel porre fine alla supremazia dell’Europa, al tramonto degli imperi ed avviare quel processo di decolonizzazione che avrebbe cambiato le cose a tal punto che il mondo del XX secolo sarebbe stato ben diverso da quello precedente.

 A seguito della Seconda Guerra Mondiale, con la sconfitta della Germania e l’esplosione nell’Agosto del 1945 di due ordigni nucleari che portarono il Giappone alla resa, gli Stati Uniti sarebbero emersi come la più grande potenza mondiale. Il mondo entrava in una nuova era, quella nucleare, che avrebbe portato con sé anche un cambiamento nel modo di fare politica estera.

 RiepilogoIl mondo del XIX secolo, come abbiamo visto, era incentrato sull’Europa e vedeva gli Americani in gran parte indifferenti alle questioni di politica estera.

Ad attrarre la loro attenzione erano soprattutto i problemi interni. Erano fiduciosi che se la sarebbero potuta perfettamente cavare da soli nel mondo: si trattava di una società autosufficiente che voleva evitare di farsi coinvolgere nelle complicazioni estere.

Tra le ragioni di questo isolazionismo il fatto che gli Stati Uniti fossero separati dall’Europa da un oceano vasto, pericoloso e difficile da attraversare che li proteggeva facendo da barriera. Consideravano la sicurezza nazionale come garantita per via di questo ostacolo, indipendentemente da tutto ciò che poteva verificarsi in qualsiasi altra parte del mondo.

Da esplorare, colonizzare e sviluppare vi era un continente dalle vastissime dimensioni. Questo interesse per l’Ovest avrebbe per anni assorbito verso l’interno le attenzioni e le energie degli americani, contribuendo a formare una tradizione continentale.

Vero è che questo allargamento verso Ovest avrebbe coinvolto gli Stati Uniti in diverse dispute e scontri con Gran Bretagna, Spagna e Messico. Vi era dunque un agire in politica estera il cui scopo era di tenere le potenze europee lontano da territori che gli americani ambivano per se stessi, cosa che non faceva che rafforzare questa tradizione.

Il XIX secolo fu un periodo di crescita per gli Stati Uniti, al quale corrispose in Europa un’assenza di guerre su larga scala che va dalla caduta di Napoleone alla Prima Guerra Mondiale. A parte gli anni tra il 1850 ed il 1870, si è trattato solo di guerre brevi e decisive che non hanno coinvolto tutte le potenze europee e non si sono mai allargate oltre il continente: vi era in quegli anni un equilibrio di potere in Europa che impediva a qualsiasi nazione di prevaricare le altre senza venir frenata. Questa situazione di equilibrio fece sì che gli Stati Uniti potessero espandersi e svilupparsi senza preoccuparsi di eventuali ingerenze europee.

La sola minaccia alla loro sicurezza era la potenza della flotta inglese, l’unica capace di attraversare l’Atlantico come si è visto nel caso della guerra del 1812. Riguardo i rapporti con gli Stati Uniti, gli Inglesi avevano assunto una posizione in alcuni casi sostanzialmente favorevole od altrimenti neutrale: un’ America libera ed indipendente infatti avrebbe meglio servito i loro interessi economici e commerciali.

Per via di questi fattori positivi, di fronte al mondo l’atteggiamento degli americani era quello di poter credere nella pace e nel progresso e pensare che il futuro sarebbe stato migliore del presente. In tutto ciò ebbero un ruolo importante anche quelle emozioni che avevano le loro radici in quella che era l’esperienza americana.

L’America era una colonia che aveva deciso di ribellarsi alla monarchia inglese per difendere le sue libertà ed ottenerne l’indipendenza. Vi fu dunque, sin dall’inizio, un ripudio dell’Europa che fece della sua Dichiarazione di Indipendenza qualcosa di più di un semplice distacco politico dall’Inghilterra: incarnò un atto di ripudio di tutti quegli aspetti della società europea del XVIII secolo non graditi agli americani e dei quali diffidavano.

Sin dai giorni dei Padri Pellegrini, Dio aveva messo loro a disposizione un continente incontaminato nel quale avrebbero potuto costruire una società nuova in un mondo nuovo, libera dai legami col passato. Ben meglio dunque evitare di farsi coinvolgere nei giochi politici della vecchia Europa, che poco o nulla avevano a che vedere con la vita quotidiana di comunità pure e oneste. L’ideale puritano della “città sulla collina” comportava di riflesso il troncare i legami con il vecchio mondo per liberarsi dai suoi intrighi: questa loro nuova nazione era “l’ultima speranza di Dio sulla Terra”.

Fino alla metà del XIX secolo i rapporti degli Stati Uniti con l’Europa furono caratterizzati da un prudente e realista isolazionismo. Essi infatti non avevano nulla da guadagnare nell’intervenire nelle questioni d’Oltreoceano: tenersene distanti contribuì senza dubbio alla crescita e allo sviluppo degli Stati Uniti non solo come nazione, ma anche come territorio e istituzioni politiche.

Nel corso del testo ci siamo anche soffermati su alcune idee che hanno avuto un peso importante nell’evoluzione della politica estera americana, soprattutto riguardo i rapporti con l’emisfero occidentale e le azioni delle potenze europee. Il primo documento è la cosiddetta “Dottrina Monroe” del 2 Dicembre 1823. Questa dichiarazione è un indirizzo di politica da assumere verso le nuove nazioni dell’America Latina.

In breve, ogni tentativo da parte di potenze europee di interferire negli affari delle loro vecchie colonie nell’emisfero occidentale non sarebbe stato tollerato dagli Stati Uniti: “Le Americhe non erano più da considerarsi come oggetto di ulteriore colonizzazione da parte di qualsiasi potere europeo”. Come si è visto, questo documento derivava la sua efficacia dalla riluttanza dell’Inghilterra di vedere la sua posizione nel nuovo mondo minacciata da altre potenze rivali.

A questa dottrina venne aggiunto nel 1904 un corollario da parte del presidente Theodore Roosevelt. Questi dichiarava che gli Stati Uniti avevano il pieno diritto e l’autorità di controllare qualsiasi interferenza da parte di governi esteri negli affari dell’America Latina: necessario era anche assicurarsi che in queste nuove nazioni fossero mantenuti governi graditi alle amministrazioni americane. Questa è conosciuta anche come la politica del “Grande Bastone”. Venne ripudiata nel 1928 dal  cosiddetto memorandum Clark.

La dottrina Monroe, come ricorderete, è stata per lo più ignorata sino alla fine del XIX secolo e non indica certo, come generalmente pensato dalle nostre parti, una volontà isolazionista da parte dei governi americani. E’ comunque rimasta un elemento fondamentale dell’azione politica di Washington.

Abbiamo anche visto come nel 1845 fu coniata l’espressione “Destino manifesto”. Serviva ad indicare un diritto di origine divina che attribuiva agli Stati Uniti la facoltà di “estendersi sul continente concessa dalla Provvidenza per il libero sviluppo ed il moltiplicarsi dei nostri milioni (di abitanti)”. Di questo concetto è poi stato fatto uso per giustificare buona parte delle successive acquisizioni territoriali americane.

Con questo pensiamo avervi offerto l’opportunità di meglio capire i contesti nei quali si sono sviluppate quelle linee che hanno poi caratterizzato la politica estera degli Stati Uniti.

 Conclusione:   In questo nuovo ordine mondiale che ha fatto seguito alla caduta del Muro di Berlino, alla fine dell’ideologia comunista ed al tramonto dell’Unione Sovietica, un dibattito sulla natura della politica estera americana non può dirsi solo una curiosità od un interesse esclusivamente antiquario. Quanto vi è oggi di isolazionismo e quanto di un ritorno alle tradizioni del passato?

L’isolazionismo americano non si era fondato solo sull’esaltazione del sentimento nazionale e sul ripudio dell’Europa. Nel XX secolo quest’ultimo deriva soprattutto da una sincera volontà di concentrarsi sulle riforme interne e di porre rimedio ai guasti dell’economia e ai crescenti problemi sociali. Il timore era che farsi assorbire e coinvolgere nei giochi di potenze esterne potesse mettere fine alla realizzazione di questi obbiettivi: a risentirne sarebbero stati quei tentativi generosi e quegli slanci di riforma ai quali, in tempi di traversie interne e grave scontento, non pochi guardavano per trarvi ispirazione.

Limitandoci al secolo scorso, quello a noi più vicino, vorrei ricordare ad esempio la dichiarazione di neutralità fatta dal presidente Wilson nell’Agosto 1914: per gli Stati Uniti la guerra in Europa era un conflitto “con cui non abbiamo nulla a che fare e le cui cause non ci possono toccare”. Neutralità dunque, ma non imparzialità. In politica interna il presidente, critico verso il sistema politico americano, si era impegnato a portare avanti un’azione di riforme sociali ed economiche implementando la politica  battezzata della “nuova libertà”.

Il suo scopo era quello di portare avanti un programma progressista per attirare il consenso dei sindacati, dei riformisti e degli agricoltori. Con un’imposta sui redditi si impegnò a realizzare una politica fiscale più equa, lottò per abbassare i dazi doganali, riformare sia il sistema bancario che monetario e combattere i monopoli. Combatté anche la pratica del lavoro minorile e concesse ai ferrovieri la giornata lavorativa di otto ore.

I problemi creati dalla guerra in Europa spensero l’impulso verso queste riforme  economiche e sociali: sarebbe stato successivamente ereditato da una nuova generazione di riformisti che se li sarebbero trovati di fronte all’epoca del New Deal rooseveltiano.

A seguito del primo conflitto mondiale e prima della sua morte, il progetto di Wilson era la creazione di un nuovo ordine mondiale basato sulla cooperazione internazionale al fine di garantire pace, integrità territoriale ed indipendenza politica. L’obbiettivo dei suoi 14 punti era quello di una pace di riconciliazione tra tutte le potenze. Nel corso della conferenza di Versailles fu costretto ad accettare molti compromessi ma riuscì a salvare il suo progetto di Società delle Nazioni.

L’ostilità della fazione più intransigente del Partito Repubblicano gridava la sua opposizione a qualsiasi partecipazione americana ad organizzazioni internazionali. Il Congresso rifiutò di ratificare il progetto della Società delle Nazioni e benché nel 1920 ottenne il premio Nobel per la Pace, il presidente Wilson si ritirò ammalato e deluso. Le aspettative da lui suscitate furono altissime e, come spesso accade, vennero presto sostituite da un sentimento di profonda disillusione.

Nel 1920 il repubblicano Warren Harding venne eletto sulla piattaforma di “ritorno alla normalità”, molto apprezzata da una nazione fiaccata dai sacrifici della guerra. Prima della sua candidatura, egli aveva detto che ciò di cui l’America aveva bisogno erano “non gli esperimenti ma l’equilibrio, non l’avventurarsi nei problemi internazionali ma la salvaguardia di un trionfante nazionalismo”. Gli Stati Uniti non ratificarono il trattato di Versailles ed il 2 Luglio 1921 il nuovo presidente concluse un trattato separato con la Germania.

Da quel momento, le successive amministrazioni applicarono una politica estera che pur conservando una propria autonomia rifiutava qualsiasi coinvolgimento. Nel senso più stretto della parola questa politica non fu rigidamente isolazionista: mirava ad una cooperazione internazionale senza impegni specifici al fine di favorire la stabilità economica.

Nel 1923 salì alla presidenza Calvin Coolidge. Non aveva alcuna predisposizione né interesse per la politica estera. Gli è stata attribuita la frase “gli affari dell’America sono gli affari”. Eletto nel 1928, il suo successore Hoover propose un programma conservatore introducendo l’idea del “New Day” (il nuovo giorno), in vista di realizzare il pieno potenziale economico della nazione. Nel corso della sua campagna aveva promesso l’imminente e definitiva scomparsa della povertà.

L’opinione pubblica rimaneva ostile all’internazionalismo wilsoniano e contraria a che il paese assumesse quegli impegni che l’adesione alla Società delle Nazioni avrebbe comportato. Vi fu una recrudescenza di nativismo che si manifestò anche in un sentimento di contrarietà nel farsi invischiare nelle controversie europee che sembravano non avere mai fine. Questo movimento, sorto dalla recessione che seguì la fine del conflitto e rafforzato dal cosiddetto “terrore rosso” e dalla fondazione della Terza Internazionale, oltre ad un’ostilità per l’Europa spingeva anche per limitare fortemente l’immigrazione.

Con la miseria ed il tracollo dell’economia che ne seguirono, l’arrivo della Grande Depressione contribuì a mantenere l’orientamento isolazionista e ad aprire un periodo di pacifismo che condusse, nel 1932, alla vittoria elettorale di Franklin Delano Roosevelt.

La prosperità degli anni Venti era un ricordo: crollò la Borsa, l’industria aveva superato la possibilità di assorbimento dei consumatori, calarono le esportazioni, svanì la fiducia negli affari ed intere famiglie persero ogni loro risparmio ed in molti casi persino l’abitazione. Aumentò vistosamente anche il numero dei disoccupati.

Distratti dalle conseguenze della Grande Depressione e delusi dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale, gli americani non avevano intenzione di farsi coinvolgere in un altro conflitto: l’opinione pubblica era assorbita dai problemi interni e persuasa che i contrasti internazionali non ledessero nessun interesse vitale del Paese. Nel Dicembre 1933, alla settima Conferenza Panamericana di Montevideo, il Segretario di Stato Cordell Hull sottoscrisse un accordo nel quale si affermava “che nessuno Stato ha il diritto di intromettersi negli affari interni di un altro”.

Di fronte ad un’opinione pubblica del tutto contraria agli impegni internazionali, il presidente Roosevelt fu costretto a lasciare agli isolazionisti del Congresso il controllo della politica estera. Si può dire perciò che gli Stati Uniti ebbero involontariamente una responsabilità nel contribuire al consolidamento delle potenze dell’Asse.

Il nuovo presidente, che nel suo primo discorso aveva sostenuto che “la sola cosa da temere è la paura”, affrontò questa crisi con il cosiddetto “New Deal” che ebbe inizio con i “Cento giorni”, nel corso dei quali fece approvare tutta la sua legislazione iniziale. La seconda fase del piano portò al Wagner Act del 1935, un ampio programma di soccorso per dare alla nazione qualcosa di più in cui sperare. Fu un periodo di grande attività nel quale tutte le energie si erano concentrate nell’affrontare i gravissimi problemi interni e migliorare le condizioni della popolazione, in molti casi disperate.

Verso la fine dell’estate del 1937, malgrado un energico intervento dello Stato nell’economia, vi fu una ripresa della crisi. Si prolungavano la stanchezza e la disperazione della popolazione, l’orientamento isolazionista restava forte tanto che il paese fece ben poco per opporsi alle dittature o incoraggiare altri a farlo. Tornato alla Casa Bianca nel Gennaio del 1938, Roosevelt promise la massima attenzione a “quel terzo del Paese male alloggiato, malvestito, malnutrito”. Già nel 1935, 1936 e 1937 aveva promulgato tre diversi atti di neutralità per tenere gli Stati Uniti lontani da una guerra ed evitare che ne venissero coinvolti.

Nel Giugno del 1940, a sottolineare quest’ostilità ad assumere impegni internazionali venne fondato l’America First Committee che fece subito molti proseliti in quanto propugnava una difesa egoistica degli interessi nazionali. L’Europa era vista come senza speranza e la Germania non rappresentava in fondo una minaccia per la nazione. Questo era particolarmente sentito da tutte quelle comunità che vivevano nella parte interna del Paese: per loro in nessun modo gli Stati Uniti avrebbero dovuto farsi coinvolgere in un conflitto.

Nelle presidenziali del 1940, benché pienamente consapevole di ciò che stava accadendo nel mondo, il presidente Roosevelt per opporsi al rivale repubblicano Wendell Wilkie promise agli americani che non avrebbero mai preso parte a “nessuna guerra straniera”. Nel Novembre del 1939 egli aveva però emendato la legislazione sulla neutralità togliendo il divieto di vendere armi. Nel Marzo del 1941 sostituì questi atti di neutralità con il “Lend-Lease Act” (legge degli affitti e prestiti), il cui scopo era quello di venire in soccorso agli Alleati senza intervenire direttamente nel conflitto.

Tornando nuovamente ai nostri giorni, malgrado gli enormi passi avanti compiuti in questi ultimi anni dalla Cina, gli Stati Uniti restano ancora la più grande potenza mondiale con una capacità di proiezione che nessun altro paese può vantare. Alla fine però è probabilmente il loro potere di attrazione (soft power) che ne fanno tutt’ora un esempio per il mondo. Da quello che si è visto con le ultime amministrazioni il dibattito sulla natura della politica estera americana resta sempre aperto e si è caratterizzato da fasi alterne di tendenze isolazioniste, posizioni interventiste, unilateralismo ed infine azioni multilaterali.

Rimane sempre forte quel sentimento di idealismo come espresso dal presidente Wilson nel suo discorso al Congresso in cui chiedeva l’intervento militare contro la Germania. Presentò la partecipazione degli Stati Uniti al conflitto come un atto di giustizia universale per la creazione di un nuovo ordine mondiale in grado di “offrire sicurezza alla democrazia”.

Edoardo Almagià

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